L’Aquila Capitale italiana della Cultura, l’analisi di Alfonso De Amicis

23 Marzo 2024 - 12:09:56

Sarà di un milione di euro il finanziamento a supporto delle iniziative
dovute per L’Aquila Capitale della Cultura. Manco fosse un “gratta e
vinci”.

D’altronde, siamo nell’era della competitività, dove al posto della
pianificazione (che brutta parola!) bisogna essere attrattivi. Ritornano
i richiami di Zygmunt Bauman circa la contrapposizione tra società
solida e quella contemporanea liquido/gassosa, pronta a conformarsi alle
opportune esigenze.

Ma cosa significa cultura nel nostro caso? Cosa rappresenta L’Aquila
capitale della Cultura? Significa una coerente e unitaria concezione
della vita dell’uomo, di un modo di vivere la città e di quell’annuncio
delle aree interne Appenniniche?

O, al contrario, quella tendenza storica dell’industria culturale che di
fatto si contrappone a tutto ciò che rompe con il pensiero dominante e
benpensante?

La città poteva interrogarsi sul proprio passato e ragionare sul vero
senso di una ricostruzione post-terremoto, che avrebbe dovuto e potuto
seguire altri percorsi. E così, mentre tutti festeggiano come a Sagunto,
l’aspetto storico, artistico e architettonico della città (storica) è
stato sacrificato, con valori messi al banco di una movida-consumismo
fine a se stessa.

Guardate l’asse centrale, che poi storicamente non è mai esistito – non
esiste alcuna menzione storica al riguardo: parliamo di Corso Inferiore
e Corso Superiore.

Un amico mi ha fatto notare come tra l’uscita di casa e la
frequentazione del Corso non c’è “stacco”: il guadagno dell’uscio e il
buttarsi in una città a consumo è un unico gesto, voluto e pianificato.

Altro che colore della pietra, o se la stessa è aquilana oppure
“straniera”.

Neanche un anno fa ci lasciava una delle menti più lucide e prolifiche
di questa città, Raffaele Colapietra: la solitudine – salvo quella
spesso pelosa e tardivamente celebrativa dalla sua morte – di un
intellettuale come lui forse, è l’emblema dello stato culturale in cui
siamo immersi. E sono lontani i tempi in cui, pur tra mille difficoltà,
il rapporto tra società civile e istituzioni dava i suoi frutti.

L’Università, ad esempio, metteva a disposizione le sue strutture ed i
suoi saperi al popolo, penso all’Aula 1 come “teatro” di dibattiti e
discussioni che segnavano i cambiamenti di fase.

E poi il Teatro Stabile, la Sinfonica, che interagivano con pezzi di
aggregati sociali fino a quel punto tenuti ai margini di qualsiasi
movimento culturale o di pedagogia del sapere.

Allora ritorniamo alla domanda iniziale ed aggiungiamo: che cosa
intendiamo per cultura? A quale movimento rifarsi? A quale percorso
storico? A quale rapporto tra movimento reale e istituzioni?

Un movimento di élite o “nazional-popolare”, per dirla con Gramsci. E
qui dobbiamo forse interrogare il ministro della Cultura, Sangiuliano,
che pare di conoscere Gramsci senza tuttavia averlo approfondito, mi
pare di capire, sul piano popolare.

Perché il popolo, nel contesto della società liberista, altro non può
essere che un prodotto da vendere e consumare, non una persona che ha
bisogno della cultura alta, vera, per emanciparsi e progredire insieme
agli altri.