08 Dicembre 2024 - 09:10:51

di Redazione

Riflessione di Fulvio Angelini sulla distanza siderale tra la politica di oggi e quella di allora.

“Grazie a Jacopo Iovannitti, qualche settimana fa ho avuto il grande privilegio di assistere alla prima nazionale di Berlinguer. La grande ambizione. Il film ha aperto la Festa del Cinema di Roma ed è stata una grande emozione poterlo vedere insieme al regista, allo straordinario Elio Germano, agli attori,ma anche a Luciana Castellina, Bersani, D’Alema, e tanti altri storici dirigenti del PCI protagonisti – allora assai più giovani – di quel partito e di quel mondo.

Quella storia io l’ho solo sfiorata. E allora, forse, non l’ho nemmeno compresa fino in fondo. Ero ancora troppo giovane per capire quanto fosse rara e importante. Ero ancora troppo ingenuo e non potevo immaginare che sarebbe stata travolta in pochi anni, in un crescendo di trasformazioni epocali. Lo dico con vergogna e sincerità, Berlinguer non mi sembrava così affascinante come adesso. E, se ci pensiamo, nel passato, a 10, 20, 30 anni dalla sua morte, Berlinguer non lo si è celebrato con tanta enfasi, con tanta attenzione e profondità e nostalgia come accade oggi. Perchè?

Perché si avverte una distanza siderale tra la politica di oggi e quella di allora, certo. Ma anche perché al fondo, in tanta parte della società anche tra i ragazzi e le ragazze che non l’hanno mai potuto conoscere (e che oggi vanno a vedere il film che gli è dedicato) c’è la voglia di andare controcorrente, il bisogno di non arrendersi alle derive dell’egoismo, di non accontentarsi alla mediocre quotidianità, c’è il gusto di riscoprire valori solidali.

Magari i ragazzi di oggi lo fanno a modo loro.

Come fa Caterina, mia figlia, che non riesco a coinvolgere nelle mie, nostre tradizionali e logore forme di impegno, ma che so essere capace di scegliere la parte giusta del mondo in cui stare. Insomma, la deriva oscurantista che genera discriminazione e odio e che avvertiamo con angoscia, non è un destino inesorabile.

Questa speranza trova in Berlinguer un simbolo quasi perfetto in cui convivono la forza dei propri valori e la mitezza del suo carattere, il fascino della sua etica pubblica e il rigore degli obiettivi politici, la riservatezza della sua vita privata e l’importanza della vicenda collettiva del formidabile gruppo dirigente del PCI.

Insomma: restituire uno stile, una dignità, una qualità del confronto, un rispetto reciproco che superi la radicalizzazione e la volgarità del linguaggio e dei rapporti attuali. Per dirla con una metafora: non scadere nella tifoseria da stadio, non parlare ai propri ultras insultando gli avversari, ma rivolgersi a tutti gli spettatori per convincerli col ragionamento non con gli insulti o le minacce.

Il fascino di Berlinguer sta proprio nell’incarnare un partito, una politica, che cercava di essere tutt’uno con il popolo che voleva rappresentare. Oggi un partito, una politica, non possono solo “parlare” del popolo denunciandone i problemi o declamandone i diritti o frequentandone occasionalmente i luoghi di vita. Non bastano i comunicati o i post sui social e nemmeno andare una tantum ai cancelli di una fabbrica o davanti a un ospedale. Troppo comodo!

Devono viverci dentro. Devono essere fatti della carne di quelle persone, devono conoscerne i dolori e le contraddizioni, interpretarne le rabbie e speranze di riscatto.Devono essere composti da quegli uomini e quelle donne in carne e ossa, altrimenti si viene percepiti come “estranei”, brave persone magari, ma lontane dalla realtà di cui si parla.

Quando oggi a parole si dice “bisogna radicarsi nella realtà” significa esattamente questo. Parlare con il volto, le parole, i dolori e le speranze della gente che si vorrebbe rappresentare.

Un partito dev’essere fatto degli uomini e donne che stanno negli ospedali, nelle scuole, nelle fabbriche, tra gli artigiani, i professionisti, gli intellettuali. È da loro che i gruppi dirigenti raccolgono stimoli e indicazioni. È con loro che si fanno le lotte sociali.

E poi un partito deve avere una ideologia. Non degli ideali, lo ripeto: una ideologia.

Un progetto ambizioso, un pensiero proiettato al futuro cambiamento, un sogno che offra il traguardo collettivo da raggiungere per migliorare la vita delle persone e indichi gli avversari di questo progetto, coloro – spesso pochi – che ostacolano il benessere di tanti, e cioè i potenti (e prepotenti), i ricchi (gli straricchi), gli arroganti e gli egoisti.

Quando anche noi abbiamo subìto il pensiero debole del “liberare la società dal peso dei partiti!”, abbiamo avuto la conferma che la società civile senza mediazione, senza organizzazione, senza una direzione pedagogica non produce un consenso durevole, non crea classi dirigenti selezionate e autorevoli, non è in grado di guidare processi profondi.

Per questo Gramsci – da qui il geniale titolo del film – distingue tra piccole e grandi ambizioni: le piccole sono quelle personali, narcisisticamente individualiste.

La grande ambizione, invece, è quella chi si lega a processo collettivo, a un interesse di fondo, a un obiettivo generale di trasformazione. E per fare questo si deve mantenere un punto di vista critico sul capitalismo.

Per troppo tempo ci siamo illusi che la Globalizzazione avrebbe risolto i problemi: invece li ha amplificati, affidando al mercato, al liberismo sfrenato, alla competizione senza regole la gestione del mondo: e questo mondo più insicuro, più ingiusto e più confuso è il risultato di quel cedimento, di quella sconfitta.

E infine – anche se molto, moltissimo si potrebbe ancora dire – il film ci racconta uno spaccato storico della vita dell’Italia, del partito e del Segretario del PCI incentrato sulla riflessione più difficile che segnò la politica di Berlinguer: il Compromesso Storico. Una riflessione allora scaturita dall’infame colpo di stato in Cile e oggi ancora attuale viste le tentazioni autoritarie e antidemocratiche che attraversavano l’Italia e tanti altri paesi.

Quel pensiero complesso e ambizioso forse conteneva la sintesi più matura del concetto di egemonia (che Gramsci elaborò non solo per sottrarre il partito al settarismo estremista e renderlo diffuso e popolare, ma per spingerlo a svolgere una missione di guida politica esercitata sul consenso, un consenso costruito su una visione ampia, su una cultura capace di assorbire anche le parti di verità contenute nel pensiero degli altri) e lo spirito unitario di Togliatti (che a Salerno ruppe lo stallo delle forze antifasciste, impose il sostegno al governo Badoglio dicendo “prima si sconfigge il nazifascismo e poi pensiamo a superare la monarchia” e unendo tutte le forze antifasciste nella Resistenza e poi lungo la strada della Repubblica e della Costituente.

Oggi sappiamo bene che il paese non cambierà con l’autosufficienza di una sinistra che ci auguriamo sempre più rigorosa, appassionata e popolare. Il paese cambierà se si costruirà un’alleanza profonda con altri strati sociali che credono nei principi del liberalismo solidale, che sentono il valore dell’etica pubblica, del ruolo regolatore dello Stato, della giustizia sociale.

Una sfida difficile ma necessaria, perché il futuro migliore che vogliamo costruire non si riduca a una vittoria elettorale ogni tanto, ma sia un processo profondo e ampio di maturazione per tutti.

In fondo la lezione di Berlinguer è quella di una politica che offra alle persone la speranza di una società “altra”, di un orizzonte di cambiamento, di un filo teso tra realtà e utopia”.