08 Gennaio 2025 - 12:14:26
di Tommaso Cotellessa
Il caso che vede coinvolta la presidente della Regione Sardegna Alessandra Todde rappresenta un duro colpo per una categoria sociale spesso bistrattata e mal compresa: l’elettorato di sinistra, centro-sinistra, o di qualunque altra sfumatura di quel campo politico. Una specie diffusa più di quanto si immagini e che pur sembrando destinata all’estinzione lotta tenacemente per la propria esistenza, malgrado leader e classe dirigente spesso non si dimostrino di aiuto.
A meno di un anno dalla sua elezione, Todde si trova a fronteggiare un provvedimento del Collegio regionale di garanzia elettorale che la dichiara decaduta per presunte irregolarità nella gestione della campagna elettorale. La vicenda è complessa e sarà al centro di un lungo confronto legale, ma il fulcro delle accuse riguarda omissioni e sviste nell’organizzazione del comitato elettorale. Un errore grave, frutto di impacci e leggerezze, che rischia di mettere in discussione una vittoria dal peso simbolico molto maggiore del suo effettivo valore politico.
Già perché l’elezione di Todde non è stata solo un successo regionale . Non si tratta di un episodio che può essere isolato. La sua è stata la vittoria di un progetto politico che sembrava destinato a rappresentare l’alternativa al governo attuale. Il campo largo nella sua versione più efficace e convincente (Pd – M5s – Avs) era riuscito a battere la destra della Meloni provocando un impatto che aveva entusiasmato quegli elettori desiderosi di vedere una classe dirigente interessata a rappresentarli.
Todde stessa, fresca di elezione, si era presentata in Abruzzo accanto a Luciano D’Amico per la chiusura della campagna elettorale regionale, lasciando intendere che la Sardegna potesse essere solo il primo passo di una lunga serie di successi per un’alternativa progressista e capace. Tanti furono infatti gli abruzzesi che credettero ad una sequela dell’Abruzzo al seguito della Sardegna, opzione che lasciava presagire un futuro radioso, un’alternativa destinata a diventare adulta, consapevole e in grado di governare.
Ad oggi sappiamo che le cose andarono diversamente e che quell’entusiasmo si era gonfiato di un desiderio illusorio. Dopo la sconfitta alle regionali del 10 marzo restarono solo poche briciole di quell’entusiasmo che furono impavidamente annientate da chi invece di costruire alleanze le decostruisce.
In questo scenario, la figura che suscita maggiore malinconia è proprio quella dell’elettore di sinistra. Un elettore esigente, spesso molto informato, capace di radicalità ma anche di adattamento alle esigenze del presente. Un elettore che oggi vive una condizione di profonda frustrazione, costantemente deluso da una classe dirigente incapace di mantenere le promesse minime.
Questo elettorato conserva, anche nei momenti più bui, un “lumicino di speranza” pronto a riaccendersi al primo segnale positivo. Si entusiasma per figure come Aboubakar Soumahoro che entra in Parlamento con gli stivali da bracciante, festeggia la vittoria della Todde e spera che l’apertura di un nuovo partito rappresenti una svolta radicale. Ma queste speranze, quasi sempre riposte in leader individuali, si rivelano fragili. La storia insegna che i grandi cambiamenti non avvengono per opera di un singolo, ma attraverso l’azione collettiva di popoli e gruppi sociali.
La crisi che colpisce l’elettorato progressista può essere descritta come un grave “deficit rappresentativo”. Da una parte, c’è una massa di elettori disillusi, che si dividono tra coloro che ancora votano, sperando di cambiare le cose, e quelli che hanno scelto l’astensionismo come gesto di sfiducia estrema. Dall’altra, c’è una classe dirigente che sembra incapace di cogliere il senso profondo di questa crisi, preferendo gestire la politica come spettacolo, sacrificando analisi e visione strategica.
Questa disconnessione crea un circolo vizioso: più l’elettore si sente tradito, meno fiducia ripone nei rappresentanti; più i rappresentanti agiscono senza coinvolgerlo, più lo spingono verso l’apatia o l’astensione.
A condensare questa condizione è un meraviglioso monologo di Mattia Torre, una voce che manca ma che continua a farsi sentire rimanendo sempre ironicamente e drammaticamente attuale. Si tratta del monologo dal titolo “Il voto infelice” nel quale Torre analizza proprio la disposizione dell’italiano dinanzi alla cabina elettorale, intesa quasi come luogo dell’anima politica dell’individuo. Torre coglie una verità fondamentale: la sfiducia e l’infelicità sono legate, così come lo sono la fiducia e la felicità.
“La sfiducia e l’infelicità vanno di pari passo, così come vanno di pari passo i loro contrari: la fiducia e la felicità.
La fiducia e la felicità sono cose che vanno insieme, perché l’atto di dare fiducia a qualcuno per definizione non è un atto infelice, è un atto felice.
Se ti fidi, sei felice. Se si fidano di te, sei felice.
Ed è ciò di cui abbiamo più bisogno: di fiducia. Fiducia da ricevere e fiducia da dare. Allora, solo allora, torneremo a essere e votare felici“