16 Febbraio 2025 - 18:22:38

di Tommaso Cotellessa

Le settimane che ci siamo lasciati alle spalle sono state intrise di memoria e ricordo. Nel breve lasso di tempo circoscritto tra l’ultima settimana di gennaio e gli inizi di febbraio si concentrano due ricorrenze che, seppur molto diverse fra loro, condividono un obiettivo comune: la condanna di ogni crimine e atrocità, da perseguire attraverso la consapevolezza delle ingiustizie del passato.

La Giornata della Memoria e il Giorno del Ricordo vengono ad aprire uno squarcio nel presente, rivelando di anno in anno la parte più oscura e mostruosamente umana di noi stessi. Si tratta di un appuntamento con la storia che consente alle ferite del passato di riemergere e sanguinare ancora. Il riaffiorare di queste lacerazioni ha una funzione preziosa e necessaria, quella di trasformare il dolore in un insegnamento, in una concreta consapevolezza impressa nella carne.

Tuttavia, al contempo, il loro riemergere rischia di alimentare un rancore atavico che intrappola in una spirale di odio e risentimento. Questo risentimento snatura e toglie valore a questi appuntamenti di grande importanza, in quanto consiste in una disposizione che non è protesa verso il superamento del dolore e una seria consapevolezza, ma porta invece a rimestare nella storia, conducendo esclusivamente a inutili partigianerie.

Esempi incarnati del valore inestimabile di una dimensione che guardi alle atrocità del passato con un’operosa fiducia nel futuro e un impegno concreto verso una società più giusta sono i testimoni dell’Olocausto, uomini e donne sopravvissuti a uno sterminio scientifico e infernale che si fanno costruttori di pace e promotori di un perdono che ha bisogno di essere riscattato nelle azioni del presente. Scopo di questi appuntamenti dovrebbe essere proprio quello di contagiare ogni essere umano con questo atteggiamento, consentendo la costruzione di una memoria universale che ci renda tutti eredi delle sofferenze del passato – tutti coinvolti, tutti feriti e tutti colpevoli – così da poter essere uniti nella ferma condanna di ogni crimine di guerra, tanto nel passato quanto nel presente.

In questo senso colpiscono le parole pronunciate, in occasione della Giornata della Memoria, dalla storica Anna Foa, la quale ha spiegato in un’intervista:

«La Giornata della Memoria non è una ricompensa data agli ebrei per essere stati assassinati durante la Shoah o per essere stati dimenticati per un periodo abbastanza lungo dopo la Shoah. La Giornata della Memoria nasce perché l’uomo impari di cosa è stato capace l’uomo, in questo caso nei confronti degli ebrei, ma in un altro momento può essere capace di altre cose nei confronti di altri».

In questi termini le giornate dedicate al ricordo delle violenze del passato assumono un valore inestimabile, in quanto si fanno strumenti necessari per discernere il presente, non limitandosi a essere un tributo da offrire ai sommersi del passato.

Tuttavia, questo processo di consapevolezza non sembra vivere un momento felice. La nostra società fatica a riconoscere le proprie incoerenze e a imparare dai propri errori. Ne sono un sintomo le polemiche e le manifestazioni di protesta che hanno accompagnato tanto Giornata della Memoria quanto il Giorno del Ricordo. Questi episodi dimostrano il fallimento di quell’impegno collettivo a superare le divisioni del passato per unirsi in un fronte comune di pace e fratellanza.

Ma il problema non riguarda solo il passato. Nel presente assistiamo al persistere di guerre devastanti, mentre termini come deportazione, genocidio e conquiste sono tornati nel dibattito politico. Le cronache ci consegnano le rivendicazioni di leader intenti a far valere annessioni territoriali, fino ad arrivare alla proposta di trasformare zone di guerra, impregnate di sangue innocente, in lussuosi resort dedicati allo svago di benestanti provenienti dalla parte fortunata del mondo.

Come se non bastasse, assistiamo all’erodersi dell’autorità di quelle istituzioni sovranazionali nate per prevenire il ripetersi di simili orrori. Sembrano lontane e inascoltate le parole pronunciate da Papa Paolo VI alle Nazioni Unite il 4 ottobre del 1965, quando affermava con decisione ai rappresentanti dei governi di tutto il mondo:

«Non più la guerra, non più la guerra! La pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità! […] Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Le armi, quelle terribili, specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi. Cresca la fiducia unanime in questa Istituzione, cresca la sua autorità».

In quell’occasione, Papa Montini si fece interprete di un profondo desiderio di cooperazione e di armonia fra le nazioni, per le quali auspicava la costruzione di un «sistema di solidarietà» con finalità altissime che nel suo agire sarebbe divenuto un riflesso dove scorgere «il messaggio evangelico da celeste farsi terrestre», come disse lo stesso Pontefice. Tuttavia, oggi, a questo sistema di solidarietà sembra contrapporsi un sistema che di celeste ha ben poco, quello dell’indifferenza. È così che dal messaggio evangelico sembriamo essere stati ricacciati indietro verso le parole pronunciate da Caino nel libro della Genesi quando, dopo essersi macchiato le mani del sangue di Abele, afferma con tono sprezzante: «Sono forse io il custode di mio fratello?»

Esempio dell’imperversare dell’indifferenza nella società odierna, in quanto risultante delle sue incoerenze e contraddizioni, è senza alcun dubbio il conflitto israelo-palestinese, con particolare riferimento alla tragedia di Gaza.

Mentre si ricordano gli abomini dei campi di concentramento e si condannano le deportazioni gridando «mai più», in televisione scorrono le immagini delle bombe che distruggono e annientano civili inermi. La cosiddetta Terra Santa si è trasformata in un luogo di sacrificio incomprensibile, dove un popolo passato attraverso l’orrore rischia di diventare a sua volta oppressore, mentre la comunità internazionale, incapace di trovare soluzioni efficaci, assiste impotente a una tragedia che, seppur intervallata da tregue, appare senza fine.

Questa drammatica incoerenza è ben rappresentata da un’analogia presente a più riprese nel Talmud. Gli scritti rabbinici, infatti, descrivono Gerusalemme come una città in perenne oscillazione tra santità e corruzione, tra speranza e peccato. Quest’ultima viene spesso paragonata alla condizione dell’essere umano, come se la Terra Santa fosse il riflesso delle nostre stesse contraddizioni.

Un sacerdote francescano ha osservato: «Terra santa ed acqua santa producono comunque fango» il che significa che la santità non rende un luogo immune dalla corruzione, ma lo rende testimone eloquente della condizione umana. Il dramma che in quei territori si è compiuto, e rischia di continuare a compiersi dietro le scellerate tentazioni belliche dei potenti della terra, viene dunque a dirci molto di noi. Del male che possiamo compiere e del bene che possiamo tralasciare.

Da quella ferita nel terreno, generatasi da antichissimi movimenti tellurici, che è la Valle del Giordano si leva ancora una volta un invito. Così come quando il verbo si fece carne, assumendo la misera condizione umana, vivendo da umano quella miseria e con ciò divinizzandola, oggi la miseria che abita noi stessi viene a farci appello chiamandoci alla responsabilità della nostra parte.

Per costruire la pace è necessario riconoscere le proprie colpe, individuali e collettive, e avviare un cammino di consapevolezza che ci allontani per sempre dall’odio e dalla guerra, allora potremo dire di aver fatto la nostra parte trasformando le nostre debolezze in opportunità di crescita e di pace.

Forse anche questo è Resurrezione.