18 Giugno 2025 - 21:25:30
di Vanni Biordi
Il Palazzo di Giustizia dell’Aquila è tornato ad essere il fulcro di un dibattimento che solleva non poche domande: il processo a carico dei tre cittadini palestinesi Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh, accusati di terrorismo internazionale. Un’udienza che ha visto al centro della discussione la traduzione di documenti dall’arabo e l’ascolto di testimonianze cruciali, ma che, fuori dalle aule, continua ad alimentare un acceso dibattito sulla legittimità e le procedure adottate.
Il dibattimento di oggi ha evidenziato le diverse strategie di accusa e difesa. Da un lato, il commissario capo in quiescenza Patrizio Cardelli ha illustrato le indagini della Digos, basate su “fonti aperte” come social media e siti web, che documenterebbero presunte attività terroristiche e finanziamenti in Cisgiordania, in particolare da parte di Yaeesh. Dall’altro, la difesa contesta non solo il merito di tali ricostruzioni, ma anche la metodologia investigativa stessa, evidenziando le complessità legate all’interpretazione di informazioni provenienti da contesti così delicati.
Ma è ciò che accade e si dice al di fuori del tribunale a dare la misura della posta in gioco. Un sit-in di solidarietà ha animato l’esterno del Palazzo di Giustizia, con manifestanti che denunciano gravi “forzature procedurali”. Le accuse sono pesanti: dall’ammissione iniziale di confessioni che sarebbero state estorte sotto tortura, poi escluse solo dopo un ricorso, alla drastica limitazione dei testimoni ammessi per la difesa, appena 3 su 47 richiesti. A ciò si aggiunge la controversa impossibilità per Anan Yaeesh di leggere personalmente la propria dichiarazione spontanea in italiano, affidata a un’interprete che, secondo legali e attivisti, ne avrebbe “alterato il contenuto politico”.
Questi elementi sollevano interrogativi fondamentali non solo sulla correttezza di un singolo procedimento giudiziario, ma anche sul trattamento riservato agli imputati palestinesi in contesti internazionali. Il confine tra l’accusa di terrorismo e la legittimità della resistenza in territori occupati diventa labile, e la percezione di un processo equo è messa a dura prova quando emergono questo tipo di contestazioni procedurali.
Si dice spesso che la giustizia, per essere tale, deve essere trasparente e inequivocabile, garantendo a tutti, indistintamente, il diritto a una difesa piena e a un processo che non lasci adito a dubbi o sospetti di strumentalizzazione. Il processo dell’Aquila, con le sue complessità e le polemiche che lo accompagnano, ci ricorda quanto sia essenziale vigilare affinché il principio di legalità non venga mai sacrificato sull’altare di logiche diverse da quelle puramente giudiziarie.