26 Agosto 2025 - 17:15:15
di Tommaso Cotellessa
«Io non sono pacifista, io sono contro la guerra».
Con questa frase Gino Strada era solito spazzare via ogni vuota retorica sul tema della pace, invitando a mobilitarsi con gesti e posizioni concrete, capaci di andare nella direzione del disarmo e del definitivo ripudio di ogni logica di guerra.
In questi giorni a L’Aquila non si fa altro che parlare di pace. Si parla di perdono e di speranza, richiamando un messaggio sopravvissuto nei secoli: l’eredità di un uomo mite che seppe servire la propria generazione e vivere appieno il proprio tempo. Eppure, ascoltando la narrazione che si sta facendo della Perdonanza, sembra che questo messaggio non sia declinato nel presente, nei fatti di oggi. Così si rischia non solo di scivolare in un’interpretazione stucchevole delle azioni di pace, ma anche di rendere sterile il profondo messaggio celestiniano.
Rari ed episodici gli interventi che affrontano di petto l’attualità all’interno del flusso di parole dedicato all’importanza del perdono. Qualcuno prova timidamente a citare le guerre in corso, ma senza dettagli, riferimenti geografici o geopolitici. Alcuni esponenti politici hanno compiuto gesti espliciti, ma confinati a iniziative personali o di partito, incapaci dunque di generare una mobilitazione popolare e condivisa. L’unico che da un palco ha provato a rompere gli schemi è stato Renato Zero: nel concerto inaugurale ha avuto il coraggio di condannare l’agire incomprensibile di alcuni Premier, con riferimento al massacro di Gaza.
Si ha quindi la sensazione che L’Aquila voglia proporsi come capitale di un Perdono astratto, di una pace che non trova gambe sulle quali camminare. Ma non è sempre stato così. La Perdonanza Celestiniana, che negli ultimi anni ha acquisito grande visibilità grazie al riconoscimento come patrimonio immateriale dell’Unesco, alla visita di Papa Francesco nel 2022 e ai consistenti fondi investiti per dare lustro agli spettacoli e ai riti del primo giubileo della storia, ha bisogno oggi, come qualcuno scriveva nei giorni scorsi, di un ritorno al suo messaggio più autentico.
Non mancano precedenti. Negli anni passati, quando la guerra imperversava nello scenario internazionale, alcuni consiglieri comunali scelsero di usare la Perdonanza come messaggio rivolto all’umanità del presente, senza timore della sua ricaduta sociale e politica. Nel Corteo della Bolla del 2003, pochi mesi dopo lo scoppio della seconda guerra del Golfo, alcuni consiglieri all’opposizione dell’allora Giunta Tempesta – fra cui Giustino Masciocco, Goffredo Palmerini, Totò Di Giandomenico e Fabio Ranieri – decisero di rompere il protocollo e sfruttare quello spazio mediatico per lanciare un segnale forte e condiviso: costruire un’iniziativa di pace e sensibilizzare la cittadinanza. La scelta di portare in corteo la bandiera della pace viene descritta da chi prese parte a quel gesto come una decisione urgente per rispondere, a caldo, alle tensioni che montavano sullo scenario internazionale. Un modo dunque per rendere più attuale che mai la voce di Celestino.
Un appello a una pace non solo raccontata, ma resa concreta nel presente, capace di provocare un impatto reale. Certo, non sono questi gesti a cambiare da soli lo stato delle cose, ma se davvero crediamo nelle parole che accompagniamo alla Perdonanza, se consideriamo prezioso il messaggio di Celestino, allora è necessario incarnarlo nel nostro tempo. Non basta proclamare L’Aquila “capitale del perdono”: ogni definizione ha bisogno di sostanza.
E allora ci vuole ambizione. Se L’Aquila è davvero capitale del perdono, perché non convocare una conferenza di pace con il governo ucraino e quello russo, con il governo israeliano e i rappresentanti palestinesi? Se il perdono deve essere agito e ci insegna un nuovo alfabeto – come viene ripetuto negli spettacoli e dai palchi della Perdonanza – sarebbe miope non pensare in grande e non mettere a frutto un tesoro così prezioso.
Se consideriamo davvero importante la Perdonanza, allora si parli della condizione dei detenuti, di giustizia riparativa: non è forse questo perdono agito? Si parli della risoluzione dei conflitti: non sono anch’essi terreno di misericordia? Oppure si parli del diffuso rancore generazionale, dell’inconsistenza delle relazioni di oggi, dell’aumento delle violenze domestiche e dell’incapacità di guardare con tenerezza alla miseria dell’altro.
Abbiamo un disperato bisogno di perdono e di misericordia. Il nostro tempo, avvolto da tensioni e odio, sembra averne smarrito il senso. Allora parliamone, certo, ma le parole non bastano: servono segni concreti, appelli e azioni. Una bandiera in un corteo sostenuta da una collettività può essere un primo passo, ma certo poi la strada è ancora lunga. Conviene iniziare.
Per rendere davvero L’Aquila capitale del perdono, non bastano le parole del passato urgono i segni nel presente. Altrimenti la Perdonanza non sarà mai ciò che abbiamo imparato a raccontare.