10 Settembre 2025 - 12:29:03
di Martina Colabianchi
Stiamo “antropizzando” troppo la montagna, così come abbiamo fatto con i luoghi urbani?
È la domanda che si pone l’associazione internazionale Mountain Wilderness, impegnata da anni nella tutela degli ultimi spazi incontaminati e nella promozione di una maggiore consapevolezza ambientale tra gli amanti della montagna.
Il riferimento è alla realizzazione di una nuova via ferrata sulla parete di Montebello di Bertona, una storica e apprezzata falesia di arrampicata sportiva a bassa quota.
Le vie ferrate sono percorsi attrezzati con cavi, scalette e pioli, nati per facilitare l’accesso alle zone di alta montagna anche ai meno esperti. La prima fu realizzata nel 1843 in Austria, ma furono le esigenze belliche della Prima Guerra Mondiale a farle proliferare sulle Alpi, in particolare in Dolomiti e Alpi Giulie.
Oggi in Italia esistono oltre 400 vie ferrate, concentrate soprattutto nella catena alpina. Anche il nostro Gran Sasso ne conta sei, tutte storiche e legate a un valore culturale riconosciuto, anche dal Club Alpino Italiano (Cai), che in più occasioni ha espresso la necessità di limitare le nuove ferrate per preservare la montagna nella sua forma originaria.
L’associazione, per voce di Massimo Tudini, responsabile Abruzzo di Mountain Wilderness, Mario Marano Viola, attivista della stessa associazione e Giampiero Di Federico, guida alpina e co-fondatore di Mountain Wilderness international e Italia, muove delle considerazioni che si sposano proprio con la linea del Cai.
Il rischio sarebbe quello di banalizzare l’esperienza alpinistica, riducendo l’imprevedibilità, la libertà e il valore formativo dell’andare in montagna. Per questo, i tre fanno loro il pensiero di Carlo Alberto Pinelli (il maìtre à penser dell’ambientalismo montano), che riteneva che «le vie ferrate sono divertenti, favoriscono un piacevole impiego delle proprie predisposizioni atletiche, permettono di fotografare i monti da una diversa prospettiva, vero. Ma dove va a finire la libertà di decidere il proprio itinerario, appiglio dopo appiglio, la capacità di imparare dai propri errori, l’ingegnosità di individuare vie d’uscita dalle difficoltà e dai pericoli? Le vie ferrate favoriscono atteggiamenti passivi, (tanto ci sono cavi e scalette a guidarci passo passo) non sono formative; non ci liberano dai condizionamenti urbani di cui siamo succubi e non contribuiscono a rivelarci aspetti creativi della nostra psiche che giacevano sul fondo, senza possibilità di emergere e di esprimersi. Restano solo un gioco epidermico».
A questo, si aggiungerebbe anche un pericolo per la sicurezza, con una montagna sempre più frequentata anche da chi, poco esperto, si avventura senza un’adeguata preparazione ed attrezzatura. «È evidente inoltre che la falsa sicurezza data da cavi metallici, dai cartelli di accesso più in generale da un ambiente addomesticato, è un invito più o meno esplicito agli escursionisti a sottovalutare il terreno cui si muovono e ad assumersi rischi superiori alle proprie capacità».
«La Ferrata a Montebello di Bertona si svolge a bassa quota, non porta a nessuna parte significativa, interseca alcune vie in roccia sottostanti – scrivono gli esperti dell’associazione Mountain Wilderness -. È un impatto fin troppo visibile su quell’ambiente. Perché farla? È a nostro parere una della tante banalizzazioni dell’esperienza in montagna, come vedere un lupo in natura e un lupo in cattività. Non è la stessa cosa».
«Le ferrate storiche, come abbiamo detto, sono diventate una sorta di patrimonio del nostro Gran Sasso e stanno bene così come stanno e vanno manutenute. Di nuove ferrate, fondamentalmente inutili, non ne vediamo la necessità. Sperando anche che in questa ferrata a Montebello, non si sia ripetuto l’errore
pericoloso e grave, dei fittoni con gli occhielli di uscita (per un’ eventuale corda di sicurezza), rivolti verso il basso, come alle ferrate al Gran Sasso – concludono -. Buona montagna».