06 Ottobre 2025 - 19:45:58

di Tommaso Cotellessa

I giorni scorsi hanno portato un vento di politica fra le strade dell’intero Paese che non aveva affatto il sapore del nuovo millennio. Quello che ha soffiato nelle grandi e piccole città, dal Nord al Sud della penisola, è parso piuttosto un vento dal sapore di Novecento: un vento carico di ideali, sogni e aspirazioni.

Un vento politico — o meglio, desideroso di soffiare sui mulini della politica — per farli tornare a macinare, muovere, lavorare. Si è discusso moltissimo di queste giornate, in un dibattito che spesso non è stato all’altezza degli avvenimenti. Commenti superficiali si sono alternati a banalizzazioni fuori fase, rimbalzando “democraticamente” tanto dalle bacheche degli annoiati e livorosi leoni da tastiera, quanto dagli irridenti vertici del governo. Eppure, le piazze ci dicono qualcosa — bisogna ammetterlo. Ci raccontano di un cambiamento inaspettato, di una tensione viva nel Paese. Una tensione senz’altro positiva, espressione dell’indignazione di centinaia di migliaia di uomini e donne, giovani e anziani, desiderosi di pace. Ma anche una tensione da problematizzare, senza abbassare lo sguardo davanti alla pluralità di posizioni che hanno attraversato quel grande fiume umano: un fiume dove confluiscono i sinceri pacifisti, i volti umani di chi si indigna, ma anche coloro che interpretano il 7 ottobre di due anni fa — drammatica ricorrenza che ricordiamo proprio in questo giorno — come una giornata di resistenza. Una tensione, dunque, che merita un’attenta analisi.

Il Paese, oggi, è lì: nelle piazze, non nelle urne, come dimostrano i dati dell’affluenza alle recenti elezioni regionali nelle Marche e in Calabria. Un’analisi necessaria, ma anche estremamente complessa, alla quale non desidero accostarmi in preda a impulsi d’occasione. C’è però un aspetto secondario che merita di essere approfondito. Tra le tante critiche rivolte alle giornate di sciopero, non è mancato un affondo nei confronti dei sindacati — Cgil e USB, promotori della mobilitazione. Si è parlato dei disagi provocati dallo sciopero, dell’incursione dei sindacati sul piano politico e della decisione di mobilitarsi senza una rivendicazione strettamente sindacale. Queste critiche mi hanno colpito più di altre. Quello che è stato indetto è stato uno sciopero politico — su questo non ci sono dubbi. Un’iniziativa non volta a interessi elettorali, come qualcuno maliziosamente ha voluto insinuare, ma una mobilitazione nata per lanciare un messaggio alto, rivolto al governo italiano e alla comunità internazionale. Uno sciopero che aveva l’ambizione di far camminare una marcia carica di sogni, ideali e desiderio di pace. E allora sì, mi sento di dire che rientra pienamente nel compito dei sindacati organizzare una manifestazione di tale natura. La nostra, d’altronde — come ricorda l’articolo 1 della Costituzione italiana — è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

Per cogliere appieno la preziosità di questo articolo è utile, anzi necessario, rileggere i verbali della seduta del 22 marzo 1947, quando, in un sabato pomeriggio, i costituenti erano all’opera per dare forma a quel sistema di pensiero che è la nostra Costituzione. Fu una seduta accesa, densa di confronto. Fra gli interventi, uno in particolare offre una risposta illuminante: quello del democristiano Amintore Fanfani, che spiegava con pragmatismo e saggezza:

«La dizione ‘fondata sul lavoro’ vuol indicare il nuovo carattere che lo Stato italiano, quale noi lo abbiamo immaginato, dovrebbe assumere. Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui, e si afferma invece che essa si fonda sul dovere — che è anche diritto — di ogni uomo di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. […] L’espressione ‘fondata sul lavoro’ segna quindi l’impegno, il tema di tutta la nostra Costituzione».

Nella mente dei costituenti, infatti, il “lavoro” non era da intendersi come la fatica provata o il servizio da erogare, ma come lo sforzo libero di contribuire al bene della comunità nazionale, la messa a frutto del proprio genio per il bene dell’intera collettività. È così che la mobilitazione sindacale trova la piena attuazione del dettame costituzionale, lanciando un messaggio urgente e altrimenti difficilmente esprimibile. Un’indignazione comune, una condanna collettiva.

Ma scartabellando i verbali di quella seduta, sono incappato in un’altra sorprendente riflessione: quella dell’onorevole Roberto Lucifero, del Partito Nazionale Monarchico, il quale, nel prosieguo della seduta — mentre le diverse culture dei padri costituenti si confrontavano — commentava così la presentazione di alcuni emendamenti:

«Esistono fra gli uomini due categorie di persone di fronte ai problemi costituzionali: quelli che credono nelle Costituzioni e quelli che non credono nelle Costituzioni. Per quelli che non credono nelle Costituzioni, cioè che pensano che il giorno che avessero la maggioranza farebbero quello che vogliono, un’affermazione di principio può sembrare una sfumatura e non avere importanza; ma per coloro che, come me, credono profondamente nelle Costituzioni e nelle leggi, ogni parola ha il suo peso e la sua importanza per il legislatore di domani».

Forse è questa la politica che ci aspettiamo torni a lavorare nei mulini: una politica che sappia pensare, parola per parola, senza timore di farsi alta e lungimirante. Ma questa politica può nascere solo dal vento delle ambizioni collettive, da un soffio che non muove in nome del potere, ma è sospinto dai sogni di un futuro più giusto. Un vento che si alimenti di ideali e che non si prenda gioco di essi. L’auspicio, allora, è che questo vento soffi sempre più forte. Tocca mettersi al lavoro per il bene della comunità nazionale, e non solo.