03 Agosto 2025 - 18:23:16
di Vanni Biordi
6 aprile 2009. Una data che ha segnato per sempre una comunità, ma che ha anche innescato un’evoluzione inaspettata.
Oggi, a distanza di anni, la città dell’Aquila fatica a risorgere dalle sue ferite più profonde ma sembra aver trovato un nuovo centro nevralgico, un inatteso cuore pulsante che batte al ritmo frenetico e asettico del commercio: il centro commerciale. Quello che per molti è un semplice “non luogo” di passaggio, per gli aquilani è diventato il rifugio, il punto d’incontro, la piazza del dopo-terremoto.
Il reportage di Gianluca Nicoletti sull’edizione di ieri del quotidiano La Stampa ci offre uno spaccato amaro e incredibilmente rivelatore di questa trasformazione. L’estate aquilana non è fatta di passeggiate nei vicoli storici, ma di corse verso il parcheggio facile e l’aria condizionata delle gallerie. È qui, in questo microcosmo fatto di negozi, luci artificiali e prezzi competitivi, che si consuma la quotidianità di intere generazioni. Giovani, anziani, famiglie: tutti si ritrovano in un ambiente che, per assurdo, offre quella stabilità e quella fruibilità che il centro storico, ancora in parte un cantiere, non riesce a garantire.
La forza di questo articolo-reportage risiede nel racconto di una professoressa di storia dell’arte, un’ironia potente e dolorosa. Lei, che per mestiere dovrebbe insegnare l’amore per i monumenti, i quadri e le chiese, porta i suoi studenti a una mostra proprio al centro commerciale. La sua scelta non è un atto di rassegnazione, ma un grido di speranza.
«Come si fa a insegnare la storia dell’arte se per andare a vedere dei monumenti, dei quadri, degli affreschi, delle chiese, bisogna andare in un posto, dove tutto è crollato?», si domanda. È una domanda retorica che racchiude tutta la frustrazione di una comunità e la sua caparbietà nel cercare un barlume di normalità, anche se in un contesto completamente diverso da quello tradizionale. L’espressione «La città è inavvicinabile, troppo cara» pronunciata da una ragazza non è solo una constatazione economica, ma un’amara sintesi della situazione.
Il centro storico, pur rinascendo, fatica a ritrovare la sua anima. I costi elevati e la complessità degli spostamenti lo rendono inaccessibile, o quantomeno poco attraente, rispetto alla comodità del centro commerciale. I giovani, in particolare, vivono una sorta di scollamento tra il passato e il presente. Per loro, L’Aquila è quel luogo dove si va a fare shopping e a mangiare, un “non luogo” che paradossalmente diventa il loro primo contatto con la città. Per loro, L’Aquila «è un posto dove si può andare. Un posto, dove si può stare, un posto, dove si può vivere» a patto che sia al centro commerciale. Una narrazione che ci offre un’interpretazione profonda e agrodolce.
Il centro commerciale non è solo un surrogato del centro storico, ma ne ha assorbito le funzioni sociali. È diventato il luogo di aggregazione per eccellenza, un rifugio dall’afa, dalla pioggia, dalla difficile ricostruzione. Un simbolo, forse malinconico, della capacità di adattamento umano. La vita, dopotutto, va avanti, anche se in una galleria illuminata a neon anziché in una piazza baciata dal sole.
La lettura dell’articolo ci impone una riflessione critica. Se da un lato il centro commerciale ha svolto un ruolo vitale, offrendo un’ancora di salvezza sociale in un momento di grande smarrimento, dall’altro lato questa dinamica svela la debolezza strutturale del processo di ricostruzione. La città di L’Aquila non è ancora riuscita a riconquistare il suo ruolo di centro attrattivo, sia a livello urbano che sociale. La coesistenza di due città, quella storica, faticosamente restaurata, e quella “2.0”, fatta di cemento e consumismo, è il sintomo di una resurrezione ancora a metà, come suggerisce il testo stesso. Finché il “vecchio” centro non sarà pienamente accessibile, economicamente sostenibile e socialmente vivace, il “nuovo” continuerà a dettare le regole della vita cittadina, a scapito della sua identità storica e culturale.
La domanda è se questa sostituzione di fatto sia un compromesso necessario o una sconfitta definitiva.