20 Agosto 2025 - 00:28:39

di Tommaso Cotellessa

Se fosse possibile ottenere dati precisi sui sostantivi più utilizzati all’interno del dibattito politico, tanto dentro quanto fuori dagli organi istituzionali della città dell’Aquila, sono certo che la parola cultura rientrerebbe tra le prime classificate. In questa sede, tuttavia, occorre tralasciare sia la quantità che la qualità di tale dibattito, per concentrarsi su un argomento ben preciso.
In un ipotetico grafico lessicale, troveremmo certamente tra le parole più frequenti espressioni riferite alla sfera semantica degli alberi, degli incidenti stradali, delle persone investite, degli incendi e, non per ultime, tutte quelle parole relative alla polemica scatenata dal The Economist.

Attraversati però i cult di quest’estate, approderemmo alle parole legate alla Perdonanza, ai Cantieri dell’Immaginario e dunque al grande progetto di L’Aquila Capitale della Cultura 2026.
Questo titolo, tanto agognato, è stato accolto con entusiasmo diffuso dalla cittadinanza. Tuttavia, negli ultimi mesi, è diventato oggetto di accese polemiche, soprattutto per la percepita mancanza di coinvolgimento pubblico e di dibattito a pochi mesi dall’inizio di quello che dovrebbe rappresentare l’annus mirabilis del capoluogo abruzzese.

Da un lato, l’amministrazione rivendica una programmazione prolifica, parlando con toni entusiastici di restaurazioni lampo, riaperture imminenti e di una grande macchina operativa messa in moto per dimostrarsi all’altezza della situazione. Dall’altro, le opposizioni denunciano l’assenza di risultati tangibili e, soprattutto, la gestione padronale di un’occasione che dovrebbe invece essere comune a tutta la città, un’opportunità collettiva per mettere in mostra la propria cultura.
Ma qui sorge una domanda fondamentale: cosa intendiamo per cultura?

Non è tanto in discussione se L’Aquila sia o meno una città di cultura. Ciò su cui, invece, occorre accendere i riflettori è: quale cultura traspare oggi, attraversando le strade dell’Aquila?

Simone Weil, una delle pensatrici più profonde del Novecento, scrisse che non bisognava visitare le città, ma lasciare piuttosto che queste entrassero dentro di noi per osmosi. Ebbene, cosa lascerebbe oggi L’Aquila secondo questo approccio?

Senza dubbio, si percepisce la forza di una rinascita: un movimento lento ma deciso, che ha condotto la città a rialzarsi di fronte ad uno schiaffo della storia che l’aveva piegata nel 2009. Le immagini del sisma, guardando oggi i luoghi rinati, toccano ancora profondamente l’animo. Molta strada è stata fatta – non senza errori, ombre, ritardi. È una storia italiana, quella dell’Aquila, fatta anche di vicende giudiziarie, di una ricostruzione ancora incompleta, di lacune ancora aperte.
Eppure, uno spirito permane: uno spirito di rinascita desiderata, che rende la città tutt’altro che triste. Tuttavia, agli occhi più attenti dei cittadini, questo spirito appare oggi appannato, stanco, talvolta rassegnato, come se prevalesse la convinzione di non doversi lamentare. Ma resta. E questo non è poco.
Rimane però un nodo centrale: questo spirito non basta.

Sembra affermarsi, infatti, una visione consumistica della cultura, intesa come prodotto da offrire più che come bene comune da costruire. Gli spettacoli diventano biglietti da staccare. Le piazze vengono scelte da amministratori che, come se stessero arredando il proprio bagno, decidono a loro piacimento la pavimentazione del centro storico. E così, la vera cultura – quella senza nome, quella che nasce dal sentire comune, fatta di vite vissute, pensieri pensati, sguardi e azioni condivise – viene sostituita da una cultura dello spettacolo e del consenso, che punta solo a ottenere l’applauso del pubblico.

Ma cultura non è il numero di biglietti venduti, né la quantità di folla per le strade. Cultura è confronto, è identità condivisa. È una comunità che si riconosce nei suoi caratteri e, proprio su questi, discute, dissente, si confronta. La cultura è fatta di occhi che si incrociano, di parole che si scambiano, di posizioni contrastanti. È questo il segno di una cultura realmente democratica, e quindi contemporanea.
Per questo, no, esprimere la propria opinione sul colore della pavimentazione del centro, su Piazza Duomo, sulla ricostruzione, sul taglio degli alberi, non è disfattismo. Non è ostruzionismo. È, piuttosto, il naturale proseguimento di quello spirito di riconoscimento e partecipazione che mosse gli aquilani nel primo post-sisma. È voler contribuire alla ricostruzione non solo fisica, ma anche civile e culturale della città. È partecipare a un processo collettivo di cura del bene comune, materiale e immateriale.
Mi piacerebbe che L’Aquila fosse capitale di questa cultura: quella di chi si rialza, ricostruisce, e si ricostruisce insieme, guardando al futuro con desiderio di giustizia e bellezza. Per tutte e per tutti