12 Novembre 2025 - 17:49:46

di Vanni Biordi

Il caso di cronaca giudiziaria che ha toccato la sfera più intima della vita privata che si è sviluppato a L’Aquila, sollevando delicate questioni sulla tutela della riservatezza e sull’equilibrio delle misure cautelari, si arricchisce di una sostanziale novità. Il protagonista è il 56enne aquilano, proprietario di un condominio, indagato per aver installato microcamere nascoste nei bagni e nelle camere da letto degli appartamenti dati in locazione.

La vicenda ha preso una piega significativa la scorsa settimana, quando il Pubblico Ministero, Dott. Andrea Papalia, ha formalizzato una richiesta al Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) per l’applicazione di una misura cautelare personale coercitiva: gli arresti domiciliari.

Oltre ai reati relativi all’interferenza illecita nella vita privata, il PM ha contestato all’indagato anche l’ipotesi di reato prevista dall’articolo 612-ter del Codice Penale, e cioè la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. La contestazione dell’art. 612-ter del Codice Penale. in un contesto di ripresa occulta in luoghi privati, anche in assenza di una provata diffusione a terzi, segnala la gravità della condotta e l’intenzione di tutelare il bene giuridico della libertà morale e sessuale della persona offesa.

La richiesta di misura cautelare si fondava sull’esistenza di esigenze cautelari ritenute irrinunciabili, in particolare il pericolo di inquinamento probatorio. La Procura temeva che, lasciato in libertà, l’indagato potesse alterare, nascondere o distruggere il materiale probatorio residuo, come dispositivi di registrazione, supporti di memoria, o influenzare le testimonianze delle persone informate sui fatti.

La richiesta di una misura cautelare personale è disciplinata dagli articoli 273 e seguenti del Codice di Procedura Penale, presuppone la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e di almeno una delle esigenze cautelari previste dall’art. 274 del Codice di Procedura Penale. L’inquinamento probatorio è una delle più immediate, si attenua o viene meno quando le fonti di prova sono acquisite e cristallizzate, come è accaduto in questo caso, in parte, a seguito dell’interrogatorio. L’applicazione degli arresti domiciliari rientra tra le misure coercitive applicabili in presenza di questi presupposti.

La svolta è stata sicuramente l’interrogatorio dell’indagato e la “de-escalation” cautelare
Immediatamente dopo la richiesta del PM, la difesa dell’indagato, infatti, ha optato per una mossa strategica. Ha richiesto un interrogatorio ai sensi dell’articolo 388, comma 1, del Codice di Procedura Penale, l’interrogatorio su iniziativa della difesa, distinto dall’interrogatorio di garanzia che avviene solo dopo l’applicazione di una misura. L’interrogatorio si è svolto ieri. Evidentemente, l’accusato ha scelto di collaborare, seguendo il consiglio del suo avvocato, fornendo indicazioni utili che hanno permesso il proseguimento e lo svolgimento delle indagini in modo non più ostacolato. Questo passaggio si è rivelato cruciale.

Fornire elementi che permettono l’acquisizione o la definitiva cristallizzazione delle prove è un fattore che fa affievolire, se non cessare del tutto, l’esigenza cautelare del pericolo di inquinamento probatorio. Se le prove principali sono ormai note o acquisite grazie alla collaborazione dell’indagato, l’obiettivo cautelare di preservare la genuinità della prova è raggiunto.

La collaborazione con gli inquirenti non è un istituto di per sé previsto per la revoca della misura cautelare, ma la sua incidenza è indiretta e potentissima. L’articolo 299 del Codice di Procedura Penale. stabilisce che le misure cautelari sono revocate o sostituite se vengono meno i presupposti di applicazione. In questo scenario, la collaborazione ha di fatto neutralizzato il pericolo di inquinamento probatorio, ridimensionando la necessità di una misura tanto afflittiva come gli arresti domiciliari. Con il venir meno dell’esigenza cautelare più stringente, come l’inquinamento probatorio, è venuta meno anche la necessità di applicare la misura massima richiesta, e cioè gli arresti domiciliari.

È rimasta, però, secondo il Codice di Procedura Penale, il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, in questo caso, atti a turbare l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone, come minacce o molestie.

In base a questa valutazione, il GIP ha depositato, oggi pomeriggio, l’ordinanza applicativa di una misura cautelare meno afflittiva ma mirata: il divieto di avvicinamento ai luoghi e alle persone coinvolte in questa triste storia.

Questa misura, anche se meno gravosa della detenzione domiciliare, è specifica per la tutela delle vittime e impone all’indagato di mantenere una distanza prestabilita, spesso non inferiore a diverse centinaia di metri, dai luoghi frequentati dalle persone coinvolte, come la loro abitazione o il luogo di lavoro, e di non comunicare con loro. L’epilogo cautelare di questo caso aquilano, dunque, è un chiaro esempio di come la dinamica processuale e la condotta dell’indagato, ad esempio l’interrogatorio collaborativo, possano influenzare la valutazione delle esigenze cautelari da parte del Giudice, portando a una modulazione della misura restrittiva in linea con il principio di adeguatezza e proporzionalità sancito dalla legge. L’attenzione si sposta ora dal pericolo per l’indagine a quello per le persone riprese, a loro insaputa, dalle telecamere nascoste negli appartamenti.