13 Gennaio 2024 - 08:07:12

di Giustino Masciocco

Riceviamo dall’ing. Claudio Panone, e molto volentieri pubblichiamo, una approfondita relazione, del terremoto del 1915 che sconvolse la Marsica e molti paesi limitrofi. La violenza della scossa, ebbe ripercussioni anche nel nostro territorio, con diverse vittime a causa dei crolli di alcune abitazioni.

“Alla stazione di Sante Marie, il treno 611 di transito nella Marsica non arrivava, quel treno non giunse mai, era deragliato a Paterno alle ore 7:52. Fu proprio da Sante Marie che poi partì il primo degli spacci redatto dall’agenzia Stefani attraverso il quale si cominciò a sapere …”.

Era il 13 gennaio del 1915 e alle ore 7:52 un violento terremoto, noto come “terremoto di Avezzano”, gettò nella desolazione e nel lutto la Marsica e l’Abruzzo intero. Per l’estensione dell’area di influenza, per il numero di vittime (più di trentamila) e dei feriti, per la distruzione dei centri abitati, esso ha rappresentato il terremoto più violento, in Italia, del XX secolo, superato solo dal terremoto di Messina del 28 dicembre 1908 (oltre centomila vittime). La scossa principale, che non fu preceduta da scosse premonitrici (foreshocks), né da altri segnali, dette inizio ad un prolungato sciame sismico che si protrasse per circa quattro anni. In effetti, tra il 1913 e il 1914, nella zona si erano verificate alcune modeste scosse di terremoto, ma non erano state né abbastanza numerose né abbastanza grandi da causare apprensione.

I primi soccorsi dello Stato giunsero solo ventiquattro ore dopo il disastro, un tempo lunghissimo se si considera che molte persone erano sepolte vive e che tanti sopravvissuti erano esposti al freddo del clima rigido dell’inverno marsicano. Il Governo si trovò, all’inizio del 1915, a interessarsi di due diverse situazioni problematiche: l’impegno della guerra appena iniziata ed i bisogni delle popolazioni terremotate.
Il terremoto colpì i centri abitati della Piana del Fucino, un altopiano carsico situato nella Marsica.

Basandosi sulle osservazioni fatte e sulle informazioni procurate nell’area colpita dal terremoto nei giorni immediatamente successivi alla scossa principale (sopralluogo dal 16 al 20 gennaio), il sismologo Emilio Oddone, inviato alle zone colpite dal sisma dall’Ufficio Centrale di Meteorologia e Geofisica, verificò che la maggior parte dei danni agli edifici era imputabile sia alla localizzazione dei centri abitati, posti in siti con caratteristiche geologico-tecniche tali da indurre fenomeni di amplificazione locale del moto sismico, sia all’alta vulnerabilità degli edifici: “… Il terremoto segnò di distruzione gli abitati e costruiti male, ma non è che sotto ogni centro di distruzione sia passata una frattura sismogenica…”.

Oddone notò, infatti, che la maggior parte degli abitati danneggiati erano posizionati su alluvioni recenti o al contatto tra depositi soffici e rocce carbonatiche o, infine, su conoidi o falde di detrito. Per le tipologie edilizie, veniva rimarcata la cattiva qualità dei materiali di costruzione e gravi difetti di realizzazione quali fondazioni insufficienti, gravi difetti strutturali nelle travature e nelle compagini murarie, presenza di sbalzi, volte pesanti e tetti fortemente spingenti.

Il sismologo notò, in particolare, la formazione di una faglia o scalatura perimetrale, definita dai superstiti voragine (perché la videro aprirsi, richiudersi e riaprirsi diverse volte) che bordava perimetralmente la piana del Fucino per una lunghezza di circa settanta chilometri ”si presenta come un crepaccio largo generalmente da 30 a 100 cm col labbro interno, verso il Fucino, più basso da 30 a 90 cm”. Tutto il regime freatico fu influenzato per un centinaio di chilometri. “Le manifestazioni più sensazionali avvennero alla mola tra Venere e S. Benedetto, al bacinetto ed a Ortucchio bassa. Nella prima località si asciugò un laghetto, sorgente naturale di un vero fiume di acqua; nella seconda e terza parte del bacinetto e tutta la campagna dalla strada ventottesima alla trentunesima furono invece allagati con danni gravi gli ortaggi. Dopo tre o quattro giorni l’acqua tornava al laghetto, mentre le acque attorno ad Ortucchio si abbassavano. Restarono solo acquitrinosi il bacinetto e gli appezzamenti a sud della strada trentunesima”.

Sotto l’abitato di Paterno, alla strada undicesima c’erano cinque o sei grandi stagni naturali profondissimi che avevano uno speciale interesse idrografico in quanto, a detta dei contadini, ogni tre o quattro anni davano forti emissioni di gas conosciute col nome di “sbollenti”. Il più grande di questi stagni, denominato “Pozzone”, di circa due ettari di superficie, aveva nel centro un isolotto con un albero di salice, attorniato di acqua limpidissima. Il giorno del terremoto l’isolotto scomparve e l’acqua divenne torbida. Nel mese di maggio l’acqua era ancora torbida e melmosa e la profondità scesa a pochi metri.

Alla strada ventottesima dalla faglia uscirono acqua e gas infiammabili. A Pescina, in prossimità della faglia, si formò un cratere (craterlet) profondo sei metri. Oddone registrò, inoltre, la formazione di vulcanelli di fango (a Pescina e a Sora). “Anche lontano a Fiamignano si ebbero spaccature di suolo, ed a Concerviano un contadino che stava scavando una fossa per piantarvi le viti, osservò un’eruzione di sabbia da una fenditura prodottasi nel terreno scavato”. Per quello che riguarda gli effetti di tipo idrogeologico, in molte località furono segnalati l’intorbidimento, la variazione della portata o la temporanea scomparsa di sorgenti e variazioni dei livelli di pozzi o di bacini idrici: a Bagni di Tivoli si ebbe una variazione del livello dell’acqua del laghetto che alimentava “l’acqua solfa”; a Roma si ebbe la diminuzione della portata nelle condotte urbane.

Numerosi furono i fenomeni di instabilità dei versanti quali l’innesco di frane o il distacco di massi.
La città di Avezzano fu devastata: venne praticamente rasa al suolo e perse la vita l’80% della sua popolazione (quasi undicimila morti su un totale di poco più di tredicimila residenti). Restò in piedi, intatta, solo la casa del cementista bolognese Cesare Palazzi, come testimonia anche una targa commemorativa con su scritto “Unica casa che ha resistito al terremoto del 13-1-1915”.

Crollarono quasi totalmente i paesi di Cese, Paterno, S. Pelino, Collarmele, Cerchio, Aielli, Pescina, Gioia de Marsi, Cappelle, San Benedetto dei Marsi, Ortucchio, Massa d’Albe, Magliano, Antrosano, Sperone.
I danni, pesantissimi, non si ebbero solo nella Piana del Fucino ma anche in tutte le valli profondamente solcate: nella Valle Roveto, la valle percorsa dal fiume Liri che separa l’Abruzzo dal Lazio, da Capistrello ad Arce, soprattutto tra Civitella Roveto ed Isola Liri; nella Valle del Salto, a Collefegato, Torre di Taglio, Santa Lucia, Pescorocchiano, Fiamignano; nella Valle dell’Aterno, a Sassa, Scoppito, Paganica, S. Demetrio; nella Valle del Sagittario a Frattura, Villalago; nella Valle del Giovenco a S. Sebastiano, Villa S. Maria; nella Valle dell’Alento a Serramonacesca. Danni di varia entità furono complessivamente riscontrati in un’area molto vasta, comprendente sei regioni: Abruzzo, Lazio, Molise, Marche, Umbria e alcune località del Casertano, in Campania.

Il quotidiano Il Mattino del 14 gennaio 1915 riportava la testimonianza, molto significativa, di un operaio sopravvissuto alla catastrofe: “Non mi resi subito conto di ciò che era avvenuto; ritenni dapprima che si trattasse del crollo improvviso dello stesso stabilimento dove ero occupato: catastrofe forse avvenuta per lo scoppio di qualche macchina. Non potevo immaginare quale orribile immane catastrofe si fosse abbattuta sulla ridente Avezzano, così tranquilla e piena di vita. La gamba sinistra mi doleva abbastanza, ma ciò non mi impedì di trascinarmi fino all’aperto. Ma appena fuori, le mie orecchie furono straziate da mille lamenti. Guardai Avezzano e credetti ancora di essere vittima di un orrendo sogno: il castello, gli stabilimenti dagli alti fumaioli, la Chiesa dell’artistico ed agile campanile, tutto era scomparso. Avezzano era scomparsa ed al suo posto non si scorgevano che pochi muri”.

Sul quotidiano Avanti! del 15 gennaio 1915 si leggeva: “Povero Paese il nostro! Povera gente quella dell’Italia che si pasce di canti, suoni e di discorsi e non sa provvedere, né in pace né in guerra, alle esigenze della sua vita nazionale. E pensare che da diversi mesi si parla di preparazione militare! I magazzini dovrebbero essere zeppi di viveri; gli ospedali preparatissimi ad ogni evenienza; i soldati equipaggiati in punto! Ed è bastato il terremoto, che ha colpito una regione relativamente limitata del Paese, per dimostrare che la preparazione è un bluff, che i dirigenti d’Italia sono oggi – come ieri, come sempre – incapaci ad organizzare qualsiasi azione che esiga prontezza, energia, slancio. L’Italia è, e sarà per parecchio ancora, il Paese delle pratiche emarginate. La burocrazia la soffoca, la carta bollata e timbrata la schiaccia. Da Casamicciola a Diano Marina, dalle Calabrie a Messina, a questo di Abruzzi e Molise, ogni sommovimento delle povere terre italiane – ormai per tante prove abituate a tanto scempio – rivela alle genti, doloranti nell’attesa la fenomenale incuria, la delittuosa impreparazione dei nostri governanti. Il re accorre sui luoghi devastati in bella, estetica parata, cui fanno plauso i cortigiani e gli
imbecilli. Ma non vi corrono le ambulanze coi medicinali, col vivere, coi pronti soccorsi … E il popolo italiano – con simili governanti, in tale stato di cronaca impreparazione civile e militare – dovrebbe acconsentire ad una guerra di conquista? …”.

Scipio Slataper, invece, scriveva: “… Il disastro è gravissimo ma non è tale che possa avere una qualsiasi importanza nella vita nazionale … Mentre l’Europa è un campo di battaglia, noi non possiamo fermarci per settimane e settimane a deplorare la nostra maligna sorte. Passati i primi tempi, dobbiamo continuare a volere e a pensare fermamente alla sorte della nostra patria, ben più minacciata dallo sconvolgimento europeo che da questo vigliacco colpo di natura …”.

“… Il 13 gennaio accade qualcosa di inatteso, incontrollabile, feroce, per cui si arresta quel treno, si ferma la vita, si frattura e si interrompe la storia e con essa le storie, quando poi si riprendono il loro cammino, si porteranno dietro sempre quel giorno …”. Così G. De Simoni in Terremoto d’Abruzzo descrisse l’evento: “Era la terra della bellezza e della semplicità ed è divenuta la terra della morte e del dolore; era la regione della serenità e della calma ed è divenuta quella del lutto e dello strazio. La tristezza vi si è distesa intorno con veste funerea. Un destino di una brutalità feroce l’ha colpita, l’ha penalizzata con rabbia, distruggendo senza risparmiare, frantumando, livellando terribilmente, in un attimo. Dove era la vita sono le macerie, dove ferveva il lavoro la sciagura violenta ha formato un vasto cimitero, che si spalanca pauroso in una sola enorme tomba. Era nel mezzo della penisola come il grande cuore d’Italia e in quelle contrade vivevano genti sane, con austerità, isolate, avvolte quasi nell’aura di leggenda e di fatalismo che avevano qualcosa di mistero, con una compostezza mite e rassegnata in un’infinita pace che piaceva e si ricercava. Quel senso mistico di pace si rispandeva nell’aria attraverso la maestà delle montagne, nell’ombreggiata quiete dei boschi folti, lungo le valli solcate dai fiumi profondi e che le alluvioni ed i turbini, le furie delle frane, gli impeti dei venti non avevano potenza di turbare. Quelle popolazioni erano forti contro tutte le inclemenze; sembrava che le sfidassero e che in esse ingagliardissero le multiformi energie, e sono state schiacciate sotto il peso mostruoso delle pietre delle loro case nelle quali vivevano con i ricordi nell’intimità che rende patriarcale la famiglia e che rappresentava nelle grandi linee del suo carattere fisico e morale la vivace razza d’Abruzzo così pensosa intorno alle montagne d’ onde scendono perenni i fiumi all’Adriatico la poesia delle leggende e l’acqua delle nevi… Per richiamare l’attenzione dell’Italia e del Governo è venuto il flagello tremendo. Quelle popolazioni non avevano mai chiesto nulla per loro ed oggi l’eco angosciosa della loro agonia solleva la discussione sui molti problemi e su quello della viabilità principalmente. Esisteva una sola linea ferroviaria e si è dimostrato che paralizzandola si metteva fra l’Abruzzo aquilano ed il resto del mondo un deserto di ventiquattro ore! …”.

Il terremoto venne avvertito in gran parte dell’Italia: la scossa principale fu avvertita al Nord, fino al Veneto e alla Lombardia e verso Sud fino alla Puglia e alla Basilicata. Fra le città danneggiate ci fu anche Roma, dove decine di edifici e di chiese rimasero lesionati e si verificarono alcuni crolli.
Il terremoto ebbe un impatto sociale devastante sull’Abruzzo e sulle zone montane del Centro Italia, che furono interessate da un massiccio fenomeno di spopolamento.

Nella cultura popolare il terremoto è stato accettato in maniera fatalistica poiché evento naturale imprevedibile e come tale inevitabile.
Acute riflessioni sono quelle che Ignazio Silone scrisse dopo il terremoto che sconvolse la Marsica, ora attuali a valle dei più recenti sismi che hanno coinvolto il nostro territorio: “Nel 1915 un violento terremoto aveva distrutto buona parte del nostro circondario e in trenta secondi ucciso circa trentamila persone. Quel che più mi sorprese fu di osservare con quanta naturalezza i paesani accettassero la tremenda catastrofe. In una contrada come la nostra, in cui tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni. C’era anzi da stupirsi che i terremoti non capitassero più spesso. Nel terremoto morivano infatti ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, autorità e sudditi. Nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l’uguaglianza. Uguaglianza effimera. Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie. Non è dunque da stupire se quello che avvenne dopo il terremoto, e cioè la ricostruzione edilizia per opera dello Stato, a causa del modo come fu effettuata, dei numerosi brogli, frodi, furti, camorre, truffe, malversazioni d’ogni specie cui dette luogo, apparve alla povera gente una calamità assai più penosa del cataclisma naturale. A quel tempo risale l’origine della convinzione popolare che, se l’umanità una buona volta dovrà rimetterci la pelle, non sarà in un terremoto o in una guerra, ma in dopo-terremoto o in dopo- guerra”.

RELAZIONE DEL FUNZIONARIO PREFETTIZIO ANGELO VINCENZO CONTINENZA DI CERCHIO, INVIATO DAL PREFETTO DELL’AQUILA PER VERIFICARE COSA FOSSE SUCCESSO

“Partimmo verso mezzogiorno del 13 gennaio 1915, percorremmo velocemente la zona tra Aquila e Rocca di Mezzo e telegrafammo la notizia del disastro di Avezzano verso cui affrettammo l’andatura dell’automobile. La strada tra Celano e Paterno era in un punto solcata da una profonda fenditura ed interrotta più volte dalle rovine delle case, cadute sul piano stradale. Ci aprimmo la strada e proseguimmo.
Celano era in parte caduta e si calcolavano a duecento le vittime. Paterno appariva completamente rasa al suolo; San Pelino conservava qualche muro ancora in piedi,
ma le volte e i tetti erano quasi tutti caduti: i superstiti pochissimi ed inebetiti dal disastro.
Apparve Avezzano: erano le tre pomeridiane: la città ridotta ad una immensa platea di rovine dove le strade si confondevano con la zona già fabbricata e distrutta. L’unico carabiniere superstite ci informò che le autorità erano tutte perite… Non era da indugiarsi e poiché era a mia conoscenza che a Cerchio funzionava il telegrafo, ritornammo velocemente a Celano, il delegato Ripandelli proseguì per Aquila, io, in bicicletta raggiunsi Cerchio ove telegrafai le prime notizie alla Prefettura e non solo quelle di Celano, di Avezzano rasa al suolo, di San Pelino e Paterno pure distrutte, di Cerchio devastata, ma anche quelle che correvano nel pubblico su gli altri paesi della Conca del Fucino: Aielli, Collarmele, Pescina, San Benedetto, Ortucchio, Gioia. Nel percorso tra Celano e Cerchio avevo incontrato tre soldati scampati dalle rovine di Avezzano che fuggivano in balia del terrore; li convinsi a seguirmi… A Cerchio lasciavo la mia famiglia smarrita e senta tetto, in lutto per la perdita di una zia sepolta nella chiesa, e per la notizia che a Collarmele una mia sorella , sposa di quel sindaco cav. Angelucci, era stata estratta morta dalle rovine della sua casa … Quando giunsi ad Avezzano era già notte da qualche ora. Domandai del carcere, distrutto, dei detenuti e delle guardie: quattro detenuti erano scampati ed evasi, gli altri sepolti; le guardie scampate, ma ignoravasi ove erano. I detenuti si erano dati al saccheggio. Pensai alle banche, la Marsicana, quella di Roma, di Napoli, alla Cassa Torlonia. Incontravo intanto il figlio del sindaco di Avezzano, Giffi, che era giunto alla ricerca della famiglia, lo condussi con me con delle torce a vento di pattuglia tra le rovine e insieme abbiamo posto vari segnali ove si sentivano lamenti, per poter soccorrere i sepolti il dì seguente (…)”

E A PAGANICA?

Le cronache dell’epoca riferiscono che la violenza del terremoto gettò in uno stato di profonda angoscia gli abitanti di Paganica, oltre per i danni che subirono le abitazioni, anche per le catastrofiche notizie che arrivavano dalle zone epicentrali.
Diverse abitazioni crollarono, numerose furono gravemente danneggiate, molte altre furono abbattute. Tutte le costruzioni ebbero, comunque, evidenti lesioni. Anche il patrimonio artistico religioso risentì fortemente dell’evento tellurico. In seguito gli edifici recuperati furono oggetto dell’ inserimento di “catene”.
Nella zona denominata “Petogna” ci furono quattro morti della famiglia del sig. Luigi Romanelli: la moglie Giacomina Moro e i figli Angelo, Antonio e Olindo mentre la figlia maggiore fu gravemente ferita. Luigi si salvò perché era già uscito per andare a lavorare.

Per effetto del terremoto morirono nella Marsica Nicola de Paulis e la figlia Pia. Nicola, figlio del notaio Colombo e di Vespa Angelica e fratello dell’artista Giovanni, prestava servizio come medico a Celano.

Nicola (18.04.1863 – 13.01.1915) e Pia (19.04.1914 – 13.01.1915) furono seppelliti nel cimitero comunale di Paganica, dove tutt’ora è presente la loro tomba.
Mia nonna Cesarina Palmerini, due giorni dopo il sisma partorì la primogenita Maria e mio nonno Raffaele Tascione per riparare le congiunte dal clima rigido costruì una efficace baracca, conservata fino agli anni ’70, in località “Ortora” su un terreno di sua proprietà.

Diverse casette antisismiche furono costruite dopo il sisma del 1915; una è ancora esistente in un terreno nelle vicinanze del vecchio mulino di Paganica, di proprietà della famiglia Vivio. Una casetta simile, realizzata su un terreno tra Via delle Rocce e Via delle Vigne, in località “Petogna”, è stata demolita nei primi anni ‘80 per la realizzazione di un nuovo edificio.

“In trenta secondi possiamo perdere la vita e le ricchezze. Impariamo a vivere proponendoci scopi che trascendano la nostra vita e le nostre ricchezze; il terremoto non ci torrà più nulla. Trenta secondi ci avvertono che lo spirito non ha ancora vinto la natura; impariamo a liberarci dall’impero di una casualità indegna dell’uomo. (Panfilo Gentile)