24 Aprile 2024 - 16:43:02

di Giustino Masciocco

25-26 aprile 2024 : In ricordo di Valentino Panone nel centesimo anniversario della nascita e nel ventiquattresimo della morte, avvenuta nella notte tra il 25 e il 26 aprile 2000.

(Grand Quevilly (Francia) 29 novembre 1924- Paganica 26 aprile 2000)

Il figlio, Claudio, lo ricorda: “Orgoglioso di te, papà!

Alleghiamo un documento dell’avv Gustavo Marinucci, con il quale dichiarava di aver assistito il partigiano Valentino Panone dinanzi al Tribunale di Guerra Tedesco

Alleghiamo, inoltre, uno stralcio del libro “Io scelgo l’Italia!” di Walter Cavalieri(Portofranco Editore- 2015)

da: “Io scelgo l’Italia!” di Walter Cavalieri

Premessa

Questa breve pubblicazione vuole onorare la memoria di un patriota e di tutti coloro che come lui, negli anni bui dell’occupazione tedesca, hanno animato la Resistenza nei nostri territori senza assurgere a notorietà, senza comparire nei “ruolini” delle unità partigiane combattenti e senza ricevere duraturi tributi di pubblica riconoscenza.

L’impegno civile di Valentino Panone s’inserisce a pieno titolo nella folta schiera di uomini e donne che si esposero a rischi quotidiani e si offrirono a sacrifici immani non come protagonisti, ma come parte di quell’ordito diffuso e spesso anonimo che a ben riflettere fece della Resistenza un fenomeno di massa.

Parliamo delle migliaia di militari, di contadini, di ferrovieri, di impiegati, di insegnanti, di religiosi che si adoperarono nella salvezza di vite umane e nel riscatto dell’Italia dalla vergogna nella quale era stata precipitata dalle velleità belliciste del fascismo.

Nel caso specifico che è oggetto di questa ricostruzione, parliamo di un giovane figlio di emigrati che per amor di Patria sceglie di tornare in Italia e che da militare vive lo sfascio dell’8 settembre e l’onta dell’occupazione nazista. La sua conoscenza delle lingue ne fece obtorto collo un interprete al servizio dei tedeschi, ma il suo rifiuto di farsi complice delle nefandezze degli occupanti gli costò mesi di carcere duro, torture, processi e minacce di morte.

In questo, come in altri casi, rendere giustizia a chi si è battuto silenziosamente per la libertà è un dovere non rinviabile, perché la memoria è un lavoro del presente. E anche questo piccolo tassello contribuirà a consegnare alle nuove generazioni quel patrimonio di valori positivi che è l’unica alternativa alla barbarie.

Quel giorno del settembre 1943 la locomotiva a vapore, superate Terni e Rieti, arrancava ormai sbuffando lungo il ripido dislivello che da Antrodoco conduce verso L’Aquila. Stanco ma fiducioso di arrivare presto a destinazione, un giovane marinaio proveniente da La Spezia scrutava con crescente curiosità paesaggi via via più rinserrati fra le montagne.

Ma che ci faceva fra le montagne il marinaio Valentino Panone?

In realtà la sua storia personale partiva da molto lontano e la curiosità ci spinge a ripercorrerla per sommi capi.

Un uomo venuto da lontano

Venti anni prima, poco dopo l’avvento del fascismo, Riziero Panone (agricoltore paganichese di idee libertarie, classe 1898) e sua moglie Assunta Di Fabio (più giovane di un mese), appena sposati avevano lasciato l’Italia in cerca di lavoro e dilibertà, stabilendosi in una laboriosa cittadina della Normandia vicino a Rouen.

Qui, a Grand Quevilly, il 29 novembre 1924 era nato Valentino, secondo di otto figli. Dotato di una viva intelligenza e di una spiccata attitudine agli studi, a solisedici anni aveva brillantemente conseguito un diploma in una scuola francese.

Purtroppo quel successo scolastico del 1940, che avrebbe potuto aprirgli opportunità di lavoro adeguate alla sua preparazione, coincide con la sconfitta e l’occupazione della Francia.

Nel mese di luglio i tedeschi dispongono una sistematica revisione di tutte le naturalizzazioni concesse a partire dal 1927, soprattutto allo scopo di privare della cittadinanza gliebrei francesi. L’iniziativa, ispirata anche dall’intolleranza verso stranieri e immigrati che anima la Repubblica di Vichy, costringe anche i Panone a scegliere se mantenere la nazionalità francese o acquisire quella italiana.

Valentino non ha esitazione a optare per l’Italia, contro la quale l’opinione pubblica francese nutre risentimenti per il recente proditorio attacco alla Francia. Infatti, nonostante egli ami il paese ospitante nel quale è cresciuto e ha studiato e del quale parla correntemente la lingua, si sente maggiormente attratto da quella lontana Patria matrigna che non ha mai visitato, ma che conosce attraverso i suoi studi e i ricordinon sempre gioiosi trasmessi dai genitori.

In conseguenza di quella scelta impegnativa, che equivale a un atto d’amore verso la terra dei suoi genitori, nell’ottobre ‘40 Valentino si ritrova di punto in bianco classificato come étranger e sottoposto alla nuova normativa vigente.

La perdita della cittadinanza francese comporta innanzitutto una limitazione della libertà di movimento e la possibilità di essere inquadrati nei «Raggruppamenti di lavoratori stranieri» (GTE) posti sotto l’autorità civile del ministro della produzione industriale e del lavoro.

In una Francia afflitta dalla disoccupazione, si tratta di lavoratori considerati in sovrannumero e quindi resi disponibili dal governo di Vichy per soddisfare il bisogno di manodopera della Germania. Con l’approvazione dell’Italia fascista, sono circa 7.000 gli italianiche vengono avviati verso il Reich.

E così anche Valentino è obbligato a lasciare la Francia insieme al padre e alla sorella maggiore Iolanda per andare a lavorare presso una fabbrica di materiale bellico nella città tedesca di Wilhelmshaven, nella Bassa Sassonia, sede di un’importante base navale.

Sempre animato da vitalità e ottimismo, nonostante le malversazioni e la pesantezza del lavoro, egli ne approfitta per imparare la lingua tedesca e per coltivare lo sport, in particolare l’arte pugilistica che lo ha sempre appassionato.

Dopo circa un anno, Valentino si trova di fronte a una nuova scelta relativa agli obblighi militari, poiché i lavoratori coatti in età di leva passano a disposizione anche delle autorità militari. Dunque egli può scegliere ancora se arruolarsi con l’esercito franco-tedesco di Vichy o con quello italiano.

Ebbene, di nuovo egli sceglie l’Italia e parte volontario per la Regia Marina. Essendo vissuto per molti anni in prossimità della Senna, egli è infatti un abile nuotatore e si sente fortemente attratto dall’acqua.

Viene così destinato alla scuola «San Bartolomeo» di La Spezia, una delle tre scuole dei Corpo Reali Equipaggi della Marina (C.R.E.M.). E poiché la sede principale ha subìto un bombardamento, raggiunge la sua succursale di Forte dei Marmi.

In questa scuola, dove si perfeziona la preparazione tecnica di varie categorie di specialisti (motoristi, radiotelegrafisti, meccanici, cannonieri, etc.), Valentino presta servizio come allievo ufficiale, facendo amicizia con altri allievi abruzzesi, fra i quali uno di Pescosostanzo insieme al quale si lascia fotografare.

Fino al fatidico 8 settembre 1943. Come nel resto d’Italia, infatti, l’armistizio provoca anche in Liguria lo sbandamento delle forze armate.

Nella triste temperie dell’8 settembre

Nel generale clima di confusione dovuto all’assenza di chiare disposizioni gerarchiche e di fronte al rischio di essere catturato dai tedeschi ed inviato in campi di internamento, come molti suoi coetanei Valentino si spoglia della bella divisa da marinaio, indossa abiti borghesi e medita di raggiungere Paganica, ove da qualche mese sono già tornati i suoi genitori con tutti gli altri figli, ad eccezione di Iolanda.

Non si tratta certo di un viaggio agevole ma di un percorso lungo e avventuroso, compiuto inizialmente a piedi assieme ad altri commilitoni, poi su un autocarro carico di stracci diretto in Toscana, poi su un camioncino che lo porta fino allastazione ferroviaria di Chiusi, sovraffollata da centinaia di altri sbandati meridionali.

Quando in stazione giunge il treno, molti pensano che sia diretto verso Roma ma in realtà il mezzo imbocca la linea a scartamento ridotto che da Orte devia verso Terni – L’Aquila – Sulmona, il che va alla perfezione per Valentino e i suoi compagni di viaggio abruzzesi, fra cui è il giovane paganichese Enrico Panepucci, aviere proveniente da Viterbo. Il destino aveva voluto che un marinaio e un aviere originari delle montagne del Gran Sasso, tradizionale terra di alpini, si trovassero su quel treno della speranza.

Giunti alla stazione di Paganica (che Valentino ignorava si trovasse in aperta campagna), Enrico Panepucci guida lungo un sentiero il suo compagno e altri due giovani sbandati teramani verso il paese, distante alcuni chilometri.

Via via che si avvicinano percorrendo la verde e lussureggiante campagna, si apre alla vista di Valentino il borgo situato sul colle denominato della Chiesa del Castello, del quale aveva spesso sentito parlare dai racconti dei genitori. Quale fra quelle case lo ospiterà fra poco nel calore di una ritrovata famiglia? Egli ed Enrico già pregustano la gioia di poter finalmente riabbracciare i propri cari, ma ancora una volta dovranno fare i conti con i gravi capricci della storia.

E’ infatti il 12 settembre ‘43 e i reduci ignorano che l’intera vallata è percorsa dalla colonna tedesca che partecipaall’operazione “Quercia” avente come scopo la liberazione di Mussolini dalla sua prigionia sul Gran Sasso d’Italia. Fra l’altro, temendo una reazione ostile da parte di uomini della Resistenza, soldati tedeschi iniziano a mitragliare la bombarda(in realtà un vecchio reperto bellico della Grande Guerra) che si trova davanti al piccolo monumento ai caduti, ferendo una donna intenta a controllare l’essiccatura dei pomodori su delle tavole stese al sole.

All’oscuro di tutto ciò che sta accadendo a Paganica, Valentino ed Enrico, salutati i compagni di viaggio teramani che s’incamminano per altra strada, continuano a percorre le campagne quando, usciti da un campo di granturco e affacciatisisulla spianata delle aie di Sant’Antonio, vengono individuati da una pattuglia tedesca. Mentre il compagno, pratico del posto, riesce ad allontanarsi senza conseguenze, Valentino risponde all’altolà alzando le mani e pronunciando d’istinto qualche parola in tedesco.

Sottoposto dai militari a uno stringente interrogatorio nel corso del quale vengono annotate le sue generalità e quelle della sua famiglia, ammette di conoscere bene e di saper parlare la lingua tedesca e per questo riceve l’ordine di presentarsi l’indomani al Comando militare di zona (Orstkommandantur) installato in casa Giacobbe.

I tedeschi si erano infatti subito stabiliti in paese con una loro guarnigione occupando il rione Sant’Antonio e alcune case private, come quelle di don Corradino Giacobbe e di Antonio Rossi, nonché edifici pubblici fra cui le chiese della Concezione e di Santa Maria del Presepe (chiesa del Castello), il convento dei Frati Minori, il palazzo Ducale e il palazzo Dragonetti.

Un interprete molto poco servile

Facile intuire come fosse importante per gli occupanti avere a disposizione un interprete o traduttore fidato attraverso il quale comunicare con gli abitanti del posto.

Va qui ricordato che i tedeschi diffondevano le loro disposizioni mediante manifesti bilingue ma anche a voce, direttamente in italiano (attraverso l’impiego di soldati altoatesini) o in tedesco (con l’ausilio di interpreti scelti sul posto tra i cittadini che avessero studiato quella lingua, solitamente per precedenti esperienze di emigrazione).

E questo fu infatti il ruolo imposto a Valentino, che da allora venne quotidianamente prelevato dalla casa dei genitori con i quali si era nel frattempo ricongiunto.

Fu impegnato a Paganica ma anche all’Aquila, poiché  i tedeschi avevano bisogno di comunicare con le centinaia di operai mobilitati al loro servizio e con le popolazioni locali.

Svolse la sua funzione anche l’8 dicembre ‘43 fra le macerie della stazione e della Zeccabombardate dall’aviazione americana.

Tuttavia egli esercitò il suo lavoro di interprete al servizio dei tedeschi con sempre maggiore disappunto, anche perché gli iniziali rapporti di convivenza tra tedeschi e paganichesi si mutarono presto in atteggiamenti di reciproca ostilità quando gli occupanti iniziarono le requisizioni di generi alimentari e di animali. Infatti gli abitanti misero in atto espedienti di ogni tipo per difendere i propri averi, nascondendoli in cantine e locali appartati, murandone e camuffandone gli accessi. Gli animali venivano invece spesso ricoverati nellegrotte circostanti il paese.

Questi atteggiamenti provocavano il risentimento tedesco che alimentava, come in un circolo vizioso, la tendenza degli abitanti a reagire con azioni ostili, come il danneggiamento dei fili telefonici dell’accampamento tedesco situato nei pressi del convento dei Frati Minori. Di quel sabotaggio furono accusati quattro ragazzi di Paganica (Ermenegildo e Giuseppe Baldassarre, Nazzareno e FranceschinoMastracci), arrestati e rinchiusi per una settimana nella casa di Luigi Vivio, lungo la strada per Pescomaggiore.

L’opera svolta da Valentino per convincere infine i tedeschi a liberare quei quattro ragazzi, fu solo la prima di una lunga serie di azioni che egli svolse in favore degli Italiani.

Non è questo un caso raro, dal momento che la storia dell’occupazione tedesca nell’Aquilano registra numerosi analoghi esempi di interpreti italiani che tentarono con la loro presenza, e spesso anche esponendosi a rischi, di attenuare la durezza dei conquistatori.

I sentimenti antifascisti alimentati dal padre e il risentimento che aveva maturato in Francia e nella deportazione in Germania non potevano certo fare di Valentino un solerte servitore.

Covando avversione e ostilità crescenti nei confronti dei nazisti, egli tentò di sfruttare la sua posizione privilegiataproprio ai danni di chi lo aveva costretto a mettersi al loro servizio. Alla lunga tutto ciò non sfuggì all’attenzione di uno zelante collaborazionista che lo denunciò con l’accusa di essere in contatto con le formazioni partigiane che agivano nella zona.

Agli occhi dei fascisti (molti dei quali svolsero con dedizione servile il medesimo ruolo di interpreti) il comportamento di Valentino Panone appariva altamente sleale, come se il vincolo della fiducia fosse stato da lui offerto volontariamente ai tedeschi e non invece impostogli dagli occupanti.

La vicenda giudiziaria scaturita dalla denuncia si evince da due successive dichiarazioni giurate rilasciate nel dopoguerra dal suo difensore avvocato Gustavo Marinucci.

Arrestato, viene processato per direttissima dal Tribunale Militare dell’Esercito Fascista Repubblicano e condannato a sei settimane di carcere. Durante la breve detenzione in carcere riceve per il Natale ’43 una cartolina dalla futura cognata Giuseppina, dipendente della ditta Nurzia: “Con la speranza di rivederti presto tra noi, invio insieme a tutta la ditta i migliori auguri e saluti.”

Tuttavia, non essendo emersi sino a quel momento sufficienti elementi a conforto dell’accusa, gli viene concessa la libertà provvisoria, anche in considerazione dei suoi buoni precedenti.

Ma i guai non sono finiti: uscito dal carcere, viene infatti di nuovo arrestato dalla Gendarmeria tedesca nel febbraio 1944 a seguito di una nuova delazione proveniente da un repubblichinosposato e abitante a Paganica ma proveniente dalla Valle Subequana.

Questa volta l’accusa è di aver detenutoarmi e di aver posto in essere atti di sabotaggio ai danni deglioccupanti tedeschi e in favore delle truppe Alleate: gravissime imputazioni che prevedono la pena di morte, in quanto costituiscono violazioni della famigerata ordinanza del settembre ‘43 del feldmaresciallo Kesselring.

Interrogato una trentina di volte in una sola settimana e duramente percosso con la frattura di tre costole e la perdita di sedici denti, ridotto in uno stato pietoso, viene trascinato di nuovo a giudizio dinanzi al Tribunale di Guerra Tedesco del Koruck 594 della X Armata, riconosciuto colpevole della prima imputazione (detenzione di armi) e condannato a tre mesi di reclusione che sconta nelle carceri giudiziarie dell’Aquila.

Il Tribunale si riserva tuttavia la facoltà di svolgere nel frattempo altri accertamenti sulle imputazioni maggiori delle quali è sospettato (atti di sabotaggio e azioni di favoreggiamento), cosa impedita dal precipitare degli aventi bellici e dalla fuga in massa dal carcere di San Domenico, organizzata il5 giugno ‘44 da Alfredo Vivio. Valentino può così riunirsi in montagna con i partigiani della banda «Di Vincenzo» e insieme a loro sfilare festante per le vie dell’Aquila il giorno della liberazione, il 13 giugno ‘44.

Una onesta vita di lavoroe di grande amore per il prossimo

Subito dopo la Liberazione Valentino Panone viene utilizzato presso la Delegazione di Paganica, ove fra l’altro gli capita di redigere il documento di morte di Ugo De Paulis, ucciso nel luglio 1944 nel corso di un oscuro regolamento di conti a guerra finita.

Nel 1945 presiede il comitato “Gruppo di agitazione per l’autonomia di Paganica” formato per ripristinare il glorioso “Comune di Paganica”. L’iniziativa, portata avanti per tre anni, fallisce per le interferenze della politica aquilana (del  deputato aquilano Vincenzo Rivera), nonostante la favorevole delibera della Deputazione Provinciale.

Nel 1946 l’apposita Commissione Regionale Abruzzese istituita presso la Prefettura dell’Aquila e presieduta dall’avvocato Ezio Di Clemente e dal maggiore Aldo Rasero avvia la pratica per il riconoscimento della qualifica di partigiano combattente.

Dopo aver acquisito le necessarie testimonianze, l’anno successivo la stessa Commissione gli riconosce ufficialmente la qualifica di “partigiano combattente isolato” (cioè non appartenente a formazioni organizzate) ed operante in località diverse nel periodo 1° dicembre 1943 – 13 giugno 1944.

Nel dicembre 1950 verrà poi insignito dall’Esercito Italiano di Croce al Merito di Guerra in seguito ad attività partigiana.

Intanto la sua vita si normalizza dal punto di vista lavorativo ed affettivo. Dal 1° ottobre 1944 viene assunto nell’Ufficio Tecnico Erariale dell’Aquila e poco prima del Natale del ‘47, il 22 dicembre, si sposa a Paganica nella parrocchia di Santa Maria Assunta con Elisa Tascione, con la quale va ad abitare in Vico dei Frati, n° 5 e dalla quale avrà due figli, Ivana (recentemente scomparsa) e Claudio.

E come sempre accade nella vita, non mancheranno eventi dolorosi come la scomparsa del padre Riziero, morto nel 1949per un tumore alla gola.

Altro momento terribile sarà molti anni dopo, nel 1973, la morte violenta della madre Assunta, a seguito di un investimento sulle strisce pedonali a Milano.

Interessante l’impegno civile di Valentino Panone, che è iscritto alla Confederazione Nazionale Perseguitati Politici Antifascisti e all’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci.

Nel dopoguerra egli è attivo nella politica aquilana ma se ne disamora progressivamente constatando come gli interessi personalistici prevalgano su quelli della comunità.

Rifluisce così nel privato, coltivando amicizie e passatempi, come quello di riparare per hobby apparecchi radiofonici.

A metà anni Cinquanta completa infatti con successo il corso di “Teoria e pratica radio” della Scuola Radio “Elettra” di Torino, superando le previste prove teoriche e di montaggio.

Ma la sua generosità e dedizione verso gli altri si esplica soprattutto negli aiuti e suggerimenti preziosi che fornisce disinteressatamente in merito a operazioni catastali, successioni ereditarie e altre pratiche simili.

E’ inoltre sempre disponibile ad aiutare concittadini emigranti per risolvere problemi pensionistici, traducendo le comunicazioni che essi ricevono in lingua francese o tedesca circa il lavoro svolto inFrancia, Belgio, Lussemburgo o Germania.

Tuttavia, nonostante le sue indubbie competenze, il mancato riconoscimento del titolo di studio conseguito a suo tempo in Francia rischia di impedirgli avanzamenti di carriera all’interno del suo ufficio, per cui a trentacinque anni, nel 1959, Valentino torna sui libri per conseguire un diploma italiano (licenza di scuola superiore di avviamento professionale a tipo agrario).

Collocato a riposo all’inizio del 1980, sette anni dopo il Presidente Cossiga gli conferisce l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, in considerazione delle sue particolari benemerenze.

Valentino Panone conclude la sua nobile esperienza terrena a Paganica il 26 aprile 2000, la notte successiva alla festa della Liberazione.

Appendice

Walter Cavalieri – Commemorazione ufficiale del 70° della Liberazione dell’Aquila- Aula consiliare del Comune dell’Aquila, 13 giugno 2014

Questo 70° anniversario della Liberazione dell’Aquila cade in un momento particolare della nostra storia civile, con una Città che dopo 5 anni è pienamente impegnata nella propria ricostruzione. Una ricostruzione – mi si perdoni il paragone irriverente – che rappresenta il nostro dopoguerra, visto che per le nostre generazioni il terremoto è stato la nostra guerra e la anche nostra Resistenza. In questo contesto di rinascita,la cultura e la Storia possono svolgere un ruolo fondamentale nella ricostruzione morale della città, della sua coesione sociale, dell’identità da trasmettere ai nostri figli.

Compito arduo, poiché nel dna dell’Aquilano (la cosiddetta Aquilanitas) vi sono molte doti positive riconosciute da tutti (tenacia, fierezza, ironia, capacità di adattamento), ma anche un’innata tendenza al dileggio, alla rissosità interna e alla superficialità di giudizio.

Sono questi nostri limiti, ad esempio, che per decenni hanno interpretato la vicenda dei Nove Martiri come “una ragazzata” o un’iniziativa goliardica finita male. C’è voluto molto tempo e, vi assicuro, molto studio per ripristinare la verità.

Anche se di “verità storica” non si dovrebbe mai parlare, è tuttavia sempre preferibile una interpretazione plausibile e documentata piuttosto che una realtà storica romanzata e fantasiosa. Oggi abbiamo finalmente capito che la sparatoria che avvenne il 23 settembre ‘43 su Monte Castellano è stato uno dei primissimi scontri armati fra civili italiani e militari tedeschi: praticamente l’inizio della Resistenza italiana!

Ed è grazie a questo lavoro che oggi tutti gli Aquilani si accostano con deferenza e con riconoscenza al cippo posto il 25 aprile all’inizio del sentiero che porta a Madonna Fore e a Collebrincioni.

Qualcosa di simile vale anche per la liberazione dell’Aquila, della quale ancora oggi ci si limita spesso a dire soltanto che “la città non fu liberata da nessuno”, che fu abbandonata spontaneamente dai tedeschi, come se nessuno li abbia spinti ad andare via. Anche in questo caso, è necessario ricostruire (sia pure per sommi capi) il contesto e restituire all’evento la sua giusta dimensione.

E’ vero, L’Aquila non è stata liberata con una battaglia campale o con un lungo assedio (come Firenze o Bologna), ma è anche vero che la ritirata tedesca verso Nord non fu affatto spontanea, ma dettata da ben precise ragioni militari.

Basti dire che il 6 giugno si era aperto un secondo fronte in Europa con lo sbarco in Normandia e si preparava dunque la battaglia finale per la difesa della Germania. Inoltre sullo scacchiere italiano, a metà maggio, dopo quattro sanguinose battaglie era crollato il caposaldo di Cassino, si era aperta la strada verso Roma e – cosa ben più grave – i tedeschi presenti in Abruzzo rischiavano di essere accerchiati da una manovra di ricongiungimento con l’VIII armata inglese che risaliva sul versante adriatico. Insomma, a metà ‘44 quello tedesco era già un esercito sconfitto che non aveva altre alternative alla ritirata.

Ma c’è anche un altro elemento che consigliava ai tedeschi di affrettare il ripiegamento: la crescente insicurezza delretrofronte, reso sempre più infido dalle attività partigiane.è naturale, infatti, che uno sforzo prolungato sulla Linea Gustavpoteva essere assicurato solo da una salda retrovia capace di ospitare in piena sicurezza tutta la logistica tedesca: officine, macellerie, panetterie, magazzini, ospedali militari, 50 depositi come il famoso “Munitionlager Manfred” di Lucoli.

Non è un caso che nei nove mesi di occupazione i tedeschi si preoccuparono principalmente di “tenere calma la piazza”, a cominciare dall’impiego di truppe austriache (quindi di religione cattolica) e di soldati anziani o mandati in licenza. Per

gli stessi motivi i comandi tedeschi provvidero spesso a punire gli abusi commessi dalla loro soldataglia, tennero segreta l’avvenuta fucilazione dei Nove Martiri, provvidero alla fucilazione del milite fascista Tonino Ciroli, colpevole dell’omicidiodei coniugi Berardoni in via San Martino.

Nonostante questi accorgimenti, fin dall’inizio incombeva tuttavia nelle retrovie la minaccia di migliaia di ex-POW anglo-americani che, con grandissimo rischio personale, contadini, cittadini e religiosi nascosero, nutrirono e aiutarono apassare le linee.

E poi la minaccia dell’attività partigiana, sempre sottovalutata: un’attività che era nata spontanea (soprattutto per spirito di autodifesa, come nel caso dei Nove Martiri o dei primi gappisti di città), ma che dal febbraio ‘44, con l’arrivo diGiovanni Ricottilli, di Luigi Marrone e altri militari, diventò organizzata e particolarmente aggressiva.

Non per niente i tedeschi allestirono nel complesso di Collemaggio il terribile centro di detenzione e tortura noto come “la via Tasso aquilana”, e impiegarono anche sul nostro territorio reparti dedicati esclusivamente alla lotta anti-guerriglia(come il battaglione “Brandenburg”).

Faccio notare che a questo apparato repressivo mancò anche all’Aquila il sufficiente sostegno neofascista, grazie al rifiuto di ri-arruolarsi della stragrande maggioranza dei 600.000 soldati internati in Germania, che costituisce un tassello fondamentale della Resistenza, assieme a quello della lotta armata e della diffusa resistenza disarmata.

Dunque, pressata dagli eserciti alleati e minacciata alle spalle dagli uomini della Resistenza, la X Armata tedesca di Kesselring non aveva altra possibilità che il ripiegamento. Altro che “miracolo di Sant’Antonio”! La liberazione dell’Aquila va intesa unicamente come il frutto di una lotta senza quartiere al nazi-fascismo.

Con la liberazione finivano nove lunghi mesi di occupazione che qui è impossibile rievocare analiticamente. Voglio solo evocare dei flash: i passi delle ronde tedesche coi loro scarponi chiodati; il collare metallico della FeldGendarmerie, il comando della Silvestrella, l’obbligo dell’oscuramento, l’ascolto clandestino di radio Londra, il suono lacerante delle sirene dell’allarme aereo e l’incubo degli attacchi aerei alleati(culminati nel bombardamento dell’8 dicembre), i rastrellamenti alla ricerca di POW, ebrei, partigiani e renitenti, i civili investiti dai camion tedeschi lungo le strade, il mercato nero.

Basterebbe leggere i tanti memoriali di chi ha vissuto quei tempi, come i recenti ricordi personali resi pubblici da Emanuela Medoro.

Su tutto dominavano il diffuso senso di paura mascherato sotto una parvenza di normalità, e la percezione dell’incertezza (si sa sempre, infatti, come e quando una guerra inizia, mai quando e come finisce…)

Col forzoso ripiegamento tedesco, gli Aquilani vedevano dunque partire le prudenti truppe stanziali di occupazione e vedevano transitare reparti incattiviti dalla sconfitta e nugoli di pericolosissimi guastatori. In questo scenario maturaronoi sanguinosi colpi di coda di Onna e di Filetto, ma anche Capistrello.

Finalmente il 13 giugno L’Aquila si liberava da tutto  questo: dalla guerra, dalla paura, dalla fame. E accoglieva i primi reparti del C.I.L. e le maggiori bande partigiane che dagli inizi di giugno si erano portate sulle alture a ridosso della città: la “Di Vincenzo”, la “Duchessa”, la banda di D’Ascenzo (Arischia).

Iniziava così, pur nell’ambito di una seconda occupazione, il lento apprendistato democratico, animato da uomini come Pietro Ventura, Emidio Lopardi, Carlo Chiarizia, Stanislao Pietrostefani.

Tuttavia non mancheranno patrioti aquilani che sceglieranno volontariamente di continuare la guerra coi reparti del C.I.L. o con la brigata Maiella, pagando spesso con la vita questo slancio patriottico (Mario Tradardi, Giorgio Agnetti, Tonino Rauco). Uomini che si ricollegavano idealmente al sacrificio prematuro dei Nove Martiri, i cui resti saranno rinvenuti il 14 giugno.

Credo che questa commemorazione sia una occasione (come già per i Nove Martiri) per capire e per compiere un atto di giustizia verso tutte quelle donne e quegli uomini che per nove mesi hanno retto il peso dell’occupazione e ne hannoaffrettato la conclusione.

In questo senso, gli storici hanno fatto la loro parte: la mia esortazione è che facciano la loro parte anche la scuola, il mondo della cultura e dell’informazione, e la politica.

Perché la conoscenza e il ricordo del passato sono elementi essenziali per plasmare la società che tutti dovrebbero desiderare: una società attenta e consapevole.