30 Agosto 2023 - 09:33:48

di Tommaso Cotellessa

Pubblichiamo il testo dell’omelia pronunciata dal Card. Giuseppe Petrocchi, durante la Messa di chiusura della Perdonanza: Basilica di Collemaggio, 29 agosto 2023.

Saluto le Autorità Civili e Militari. E voi, Carissimi Fedeli, stringo tutti con un abbraccio fraterno nel Signore.

Riflettendo sul tema della Perdonanza, il mio sguardo si è posato sulla figura di Celestino V, che, ogni volta, manifesta dimensioni “nuove” della sua statura ecclesiale e umana. A chi lo avvicina si rivela personaggio semplice – aveva un carattere unitario e compatto – ma al tempo stesso complesso, per le molteplici attitudini e inclinazioni che possedeva.

Aveva una solida intelligenza “teologale”, cioè illuminata dalla fede, dalla carità e dalla speranza. Per questo possedeva sapienza nell’ambito spirituale e nell’approccio alle dinamiche evangeliche. Ma aveva anche una profonda intuizione dei pensieri e dei sentimenti di coloro che lo avvicinavano: questa abilità nello scrutare l’anima gli derivava dal lavoro di scandaglio sulla sua interiorità e dai contatti con le persone, che gli parlavano delle loro tribolazioni. Per un dono speciale della grazia, aveva affinato il suo intuito psicologico e relazionale: per questo, nel discernimento etico, era capace di “fare la verità nella carità” (cfr. Ef 4,15).

Infatti, ogni cristiano impegnato in un intenso “processo ascetico” impara a identificare le “zone d’ombra” (costituite dai propri limiti e difetti), che progressivamente smantella con l’aiuto della grazia, così come si prodiga nel potenziare gli aspetti positivi che lo configurano al Signore. Ma più si scende verso il centro di sé stessi più si diventa capaci di capire e aiutare il prossimo. Solo chi riesce ad abitarsi in pace può essere idoneo ad esprimere una fattiva “prossimità samaritana” verso i bisognosi.

Era dotato pure di una robusta “intelligenza pratica”, che lo rendeva competente nel risolvere difficoltà concrete e nel guidare la Comunità da lui suscitata. Nel corso della sua esistenza si è rivelato oltre che un coinvolgente fondatore anche un buon organizzatore.

Proprio perché interamente proiettato in un cammino di santità aveva imparato a conoscere il Cuore di Dio e il cuore dell’uomo.

Non aveva grande familiarità con assetti e frequentazioni curiali.

Celestino è stato “uomo di frontiera”: un monaco eremita ma anche un credente attento al mondo che lo circondava; un discepolo orientato all’Assoluto e un fratello accogliente verso tutte le povertà. Uomo dalle “scelte ardite”, poggiate sulla radicale fiducia nella Provvidenza. Pronto a reggere l’urto delle avversità e a battersi con coraggio per migliorare la società che incontrava.

È stato un profeta credibile perché autentico testimone del Vangelo. A lui si applicano, con speciale corrispondenza, le parole che abbiamo ascoltato dal profeta Geremia: «ecco, io faccio di te come una città fortificata, […] Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti» (Ger 1,18.19)

Celestino V è il Papa che ha donato la Perdonanza alla Chiesa e al mondo. Proprio perché aveva fatto esperienza della miseria umana e della misericordia divina ha compreso la centrale importanza di aprire a tutti e a ciascuno la Porta Santa dell’Indulgenza, nella carità del Signore Crocifisso e Risorto.

L’appello appassionato dell’apostolo Paolo risuonava continuamente nelle parole e nelle opere di Pietro da Morrone: «in nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5, 20-21).

Nella sua Visita a L’Aquila, Papa Francesco ha vigorosamente sottolineato che «Celestino V è stato un testimone coraggioso del Vangelo, perché nessuna logica di potere lo ha potuto imprigionare e gestire. In lui noi ammiriamo una Chiesa libera dalle logiche mondane e pienamente testimone di quel nome di Dio che è Misericordia. Questa è il cuore stesso del Vangelo, perché la misericordia è saperci amati nella nostra miseria»[1]. Spingendosi avanti in tale decisivo insegnamento, Papa Francesco ci ha ricordato che è fondamentale «partire dalla propria miseria e guardare lì, cercando come arrivare al perdono, perché anche nella propria miseria sempre troveremo una luce che è la strada per andare al Signore. È Lui che fa la luce nella miseria»[2].

Queste forti espressioni di Papa Francesco mi hanno richiamato alla mente un importante volumetto, che ha un titolo apparentemente paradossale e provocatorio, “L’arte di utilizzare le proprie colpe, secondo san Francesco di Sales”. Il testo è pienamente sintonico con la logica del Vangelo e con il Magistero del Papa, né può essere diversamente, poiché san Francesco di Sales è stato proclamato “Dottore della Chiesa”, cioè maestro nella dottrina cattolica, universalmente riconosciuto e accreditato.

Non si tratta di sminuire il potenziale distruttivo del peccato, che va decisamente riconosciuto come male e denunciato con fermezza. Né si intende scivolare in atteggiamenti permissivi, autoindulgenti e lassisti. Ma l’“arte”, di cui parla san Francesco di Sales, consiste nel rendere le nostre miserie morali – identificate nella verità e senza “anestetici” – fattori che generano e rafforzano l’umiltà. E l’umiltà – ricordiamolo – sta nell’ammettere sinceramente le proprie colpe, senza però sprofondare in un pessimismo arrabbiato e disfattista: consiste, invece, nel poggiare i piedi sulle nostre povertà, alzando lo sguardo in l’Alto e spalancando le braccia verso Dio, riconosciuto come Padre Misericordioso. L’anima dell’umiltà risiede nella certezza che la grazia del Signore è più forte delle nostre debolezze e nella fiducia che l’Onnipotente può rendere possibile la nostra tensione alla santità: percorso che sarebbe impraticabile se lasciato solo alle fragili forze umane.

Umiltà va nutrita nella preghiera e con il ricorso ai sacramenti della confessione e dell’eucaristia. Va inoltre sempre rimarcato che la comunione fraterna è la Casa sicura e la Scuola privilegiata dell’umiltà.

Permettetemi di citare, da questo testo, alcune “raccomandazioni” che trovo molto incisive, sapienti e consolanti. Il punto di forza su cui fanno leva sono due affermazioni che hanno un fondamento biblico: l’umiltà è base e fondamento di tutte le virtù; l’orgoglio è il principio di ogni peccato.

Per il male commesso «bisogna certamente rattristarsi, ma con pentimento vero e non già con dolore sconsolato, con sdegno e dispetto. Ora il pentimento vero, come ogni altro sentimento ispirato dallo Spirito Santo, è sempre calmo. E appena manifesta inquietudine e turbamento, è segno che la buona tristezza cede posto alla cattiva». Certamente, dunque, «bisogna piangere le proprie colpe, ma con pentimento profondo, forte, costante, tranquillo, e mai turbolento, inquieto, scoraggiante».

Per il vero discepolo la mestizia per gli sbagli fatti «si cambia in profonda, ma tranquilla e pacifica umiltà e sottomissione, e poi si innalza alla divina Bontà con piena fiducia e senza affanno e dispetto», nella convinzione che «si riesce a guadagnare con l’umiltà ciò che si è perduto per rilassatezza». Da questo versante scaturisce l’autorevole ammaestramento: «riprendete il cuore e rimettetelo dolcemente tra le mani di nostro Signore, supplicandolo che lo guarisca…; così facendo, riuscirete a trarre profitto dalle stesse perdite e sanità dalla stessa malattia». Infatti «l’umiltà è chiamata fondamento della vita spirituale, perché Dio, che è il solo Costruttore, non edificherà che sul vuoto che gli avremo scavato mediante la vera conoscenza di noi stessi».

Di qui gli asserti basilari: «La diffidenza di noi stessi e la confidenza in Dio sono due garanzie di vittoria nel combattimento spirituale». «La nostra salvezza ha due mortali nemici: la presunzione e la disperazione: la più terribile però è la disperazione»; «la confessione e la penitenza rendono l’uomo infinitamente più degno d’onore di quanto il peccato l’abbia reso biasimevole».

In tale prospettiva si comprende l’affermazione lapidaria: «l’umiltà è il termometro della santità». Infatti, «i più santi non sono i meno difettosi, ma i più coraggiosi», perché confidano tenacemente nella salvezza che viene da Dio-Amore. Sono eco concreta delle parole dell’apostolo Paolo: «mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo» (2 Cor 12, 9).

Il testo del Vangelo di Marco (Mc 6, 17-29) ci racconta le perfide manovre di Erodiade per provocare il martirio di Giovanni il Battista. Meditando con attenzione su questo brano siamo avvertiti che una delle strategie che il Maligno mette in campo per indurci in errore, sta nel far apparire il male attraente e piacevole, sia sul versante cognitivo come in quello emotivo. Ma il male, anche se coperto dal manto della mistificazione, resta male e porta male: «il salario del peccato è la morte» (Rm 6,23), sentenzia l’apostolo Paolo. La “morte”, in senso biblico, non è solo biologica, ma anzitutto quella spirituale, psicologica e relazionale: e la “morte”, essendo rifiuto dell’Amore – ricevuto, vissuto e donato – provoca una progressiva “asfissia” dell’anima, avvolta nella cappa di un egoismo distruttivo.

Gesù dice che dobbiamo essere “vigilanti”, per riconoscere il male e respingere le sue insidie. Ciò comporta un “santo combattimento”, che può andare incontro ad “apparenti” insuccessi, ma in realtà i discepoli autentici hanno la meglio nei confronti dei malvagi. Ed è ciò che dimostra la storia di Giovanni il Battista: la prepotenza di Erodiade, ottenendo un effimero vantaggio, sigla di fatto la propria sconfitta. Papa Francesco ha evidenziato che «gli umili appaiono agli occhi degli uomini deboli e perdenti, ma in realtà sono i veri vincitori, perché sono gli unici che confidano completamente nel Signore e conoscono la sua volontà».

La testimonianza di Giovanni il Battista ci insegna che è sempre conveniente stare dalla parte del Vangelo, anche quando l’appartenenza al Signore porta una “impronta martiriale”, cioè segnata dalla sofferenza.

La vera devozione a Celestino V sta nel seguire la sua dottrina e il suo esempio: infatti “venerare” fa sempre rima con “imitare”. La “lezione” di Pietro da Morrone resta attuale, perché animata dallo Spirito di Verità e di Comunione.

Chiediamo perciò la grazia di “celestinizzare”, sempre di più, la Perdonanza come anche la nostra vita, trasformandole, con crescente coerenza, in luminoso riflesso, dentro la storia, del “come in cielo così in terra” (cfr. Mt 6,10). 

La Madonna di Collemaggio ci aiuti a rendere la Perdonanza “Scuola di umiltà”, e, proprio per questo, Centro propulsore di pace (con Dio, con noi stessi, con gli altri) e Casa di fraterna solidarietà: oggi e in tutti i giorni che segneranno il nostro cammino nel tempo. Amen!

   Giuseppe Card. Petrocchi

Arcivescovo Metropolita di L’Aquila